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620 ATTO TERZO

Menico. Prego el ciel che ve soffega el catarro,

     Avanti che me dè sto bell’avviso.
Arlecchino. Caro poeta mio, scusa domando,
     E ve mando ben ben, e ve stramando. (parte)

Tonino. Muggier carissima, sta lettera ne porta un motivo de dolor e un altro de allegrezza. Xe morto el mio povero pare, e la natura no pol de manco de no resentirse; ma me consola che anderemo a Venezia, e saremo patroni de tutta l’eredità, e vu, poverazza, averè fenio de penar.

Ottavio. Come! Anche voi mi piantate? Anche voi ve ne andate?

Tonino. Andemo al nostro paese, ringraziando el nostro carissimo sior Ottavio de averne benignamente accolti, soccorsi e compatii.

Ottavio. Povero me! Povera la mia accademia! Eccola in un giorno fatta e disfatta. Ecco dove vanno a finire tutte le attenzioni, e le diligenze di chi procura instituire simili radunanze. Finiscono in disunioni, dispiaceri, e per lo più in derisioni.

Beatrice. Questo succede quando il capo non ha cervello, e lo fa senza regola e senza fondamento. Abbandonate una volta questo pazzo spirito di poesia. (parte)

Ottavio. Andate al diavolo quanti siete.

     Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Gente cui si fa notte innanzi sera. (parte)
Menico. Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Segondo lu, vuol dir gente ignorante.
     Perchè la so accademia è andada in tera,
     El deventa furente, e delirante.
     El dirà i so sonetti alla massera1,
     Per sfogar el so estro stravagante.
     Ma anca mi chiappo suso e vago via,
     E no vôi seguitar la poesia. (parte)
Tonino. Xe impussibil che el lassa la poesia,
     Impussibile xe che el cambia usanza.

  1. Serva.