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510 | ATTO TERZO |
Bargello. Io stesso che, per mia digrazia, vivo delle disgrazie degli altri, mi sentiva inorridire. (parte)
Sancio. Se ha fatto inorridire un birro, convien dire che abbia fatte delle grandi ribalderie.
Elvira. Signore, il cielo vi rimeriti della vostra pietà.
Sancio. E giusto. Vo’ che sappia la Corte, ch’io faccio giustizia.
Elvira. Saprà tutto il mondo, che un ministro infedele vi ha ingannato. Volo ad abbracciare il povero mio consorte. Sarà egli a’ vostri piedi1. Io vi ringrazio intanto; prego il cielo vi benedica, e lo prego di cuore che voi difenda, e tutti gli eguali vostri, dai perfidi adulatori, i quali colle loro menzogne rovinano spesse volte gli uomini più illibati e più saggi. (parte coi gabellieri)
Sancio2. Confesso la verità. Mi vergogno d’avermi lasciato acciecare da un adulatore sfacciato. Conosco la mia debolezza; temo i pericoli dell’avvenire, e risolvo di voler rinunziare il governo. Manderò a Napoli don Sigismondo, legato e processato, com’egli merita, e sarà dalla Regia Corte punito, a misura de’ suoi misfatti.
Conte. La risoluzione è in tutto degna di voi.
Sancio. Voi, Conte, nell’agitazioni nelle quali mi trovo, datemi almeno la consolazione di veder sposa mia figlia. Porgetele immediatamente la mano.
Conte. Eccomi pronto, s’ella vi acconsente.
Isabella. Non vorrei che andasse in collera la signora madre.
Luigia. Sposati pure, già che il cielo così destina. (Conte ingrato, stolido, sconoscente!) (da sè)
Conte. Porgetemi la cara mano. (ad Isabella)
Isabella. Eccola. (gli dà la mano)
Conte. Ora sono contento.
Isabella. (Io giubilo dall’allegrezza).