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506 | ATTO TERZO |
gretario me l’ha magnada, bon prò ghe fazza; poi esser che el se arecorda de mi sull’ora della digestion.
Sancio. Signor Pantalone, non so che dire; senza il segretario non posso risolvere.
Conte. Signore, con vostra buona grazia, mi pare che questo galantuomo abbia ragione, e che il vostro segretario sia un bel birbone. (a don Sancio)
Sancio. A poco a poco, vado scoprendo quello che non credeva. Signor Pantalone, ne parleremo.
Pantalone. Me reccomando alla so bontà, alla so giustizia.
Conte. Ditemi, signor Pantalone, avete delle belle stoffe?
Pantalone. Ghe ne ho de superbe.
Luigia. Se avete delle belle stoffe, mandatele a me, che le voglio vedere.
Pantalone. M’immagino che le servirà per la sposa, per quel che se sente a dir.
Luigia. Signor no, hanno da servire per me.
Isabella. (Oh che invidia!) (da sè)
Pantalone. Per la novizza gh’ho una bella galanteria.
Conte. Lasciate vedere.
Luigia. Sì, sì, vediamola.
Pantalone. La varda. Un zoggieletto de diamanti e rubini, che averà valesto più de cento zecchini. I me l’ha dà in pegno per trenta, e adesso i lo vôi vender.
Conte. Quanto ne vogliono?
Pantalone. Manco de cinquanta zecchini no i lo pol dar.
Conte. Che dite, signora Isabella, vi piace?
Isabella. E come mi piace!
Luigia. Lasciatelo vedere a me.
Pantalone. Cossa diseia? Porlo esser meggio ligà? Quei diamanti tutti uguali con quella bell’acqua; el fa una fegura spaventosa.
Luigia. Aspettate, che ora vengo. Avvertite, non lo date via senza di me.
Pantalone. No la dubita gnente. L’aspetto.
Luigia. (Subito colei se n’è invogliata). (da sè, parte)