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30 | ATTO PRIMO |
Gianni. Caro signor, la me diga in che linguaggio parla el secondo zane?
Orazio. Dovrebbe parlare bergamasco.
Gianni. Dovrebbe! Lo so anch’io, dovrebbe. Ma come parla?
Orazio. Non lo so nemmen io.
Gianni. Vada dunque a imparare come parlano gli Arlecchini, e poi venga a corregger noi. La lara, la lara, la ra. (canticchiando con brio)
Orazio. (Fa ridere ancora me) (da sè) Ditemi un poco, come avete fatto a cadere in acqua?
Gianni. In tel smontar da una gondola, ho messo un piede in terra e l’altro sulla banda della barca. La barca s’ha slontanà dalla riva, e mi de Bergamasco son deventà Venezian.
Orazio. Signor Gianni, domani a sera bisogna andar in scena colla commedia nuova.
Gianni. Son qua; muso duro, fazza tosta, gnente paura.
Orazio. Ricordatevi, che non si recita più all’antica.
Gianni. E nu reciteremo alla moderna.
Orazio. Ora si è rinnovato il buon gusto.
Gianni. El bon el piase anca ai Bergamaschi.
Orazio. E gli uditori non si contentano di poco.
Gianni. Vu fe de tutto per metterme in suggezion, e no fare gnente. Mi fazzo un personaggio, che ha da far rider; se ho da far rider i altri, bisogna prima che rida mi, onde no ghe vol pensar. La sarà coa la sarà: d’una cosa sola pregherò, supplicherò la mia carissima, la mia pietosissima udienza, per carità, per cortesia, che se i me voi onorar de qualche dozena de pomi, in vece de crudi, che i li toga cottib.
Orazio. Lodo la vostra franchezza. In qualche altra persona potrebbe dirsi temerità, ma in un Arlecchino, il quale, come dite voi, deve far ridere, questa giovialità, questa intrepidezza è un bel capitale.
Gianni. Audaces fortuna juvat, timidosque con quel che segue.