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NOTA STORICA

«Li 2 Maggio 1750 fu rappresentata per la prima volta in Mantova con fortunatissimo incontro, e fu parecchie volte ivi replicata. Lo stesso avvenne in Milano, e nell’Autunno e Carnovale susseguente fu per dodici volte replicata in Venezia». Così l’avvertenza in testa alla commedia nella primissima stampa veneziana del Bettinelli, t. IV, 1753.

Il titolo è suggestivo. Le botteghe da caffè e da acque si erano talmente moltiplicate a Venezia, che nel 1750 se ne potevano contare nejla sola Piazza una quarantina, la più parte lungo le Procuratie Nuove; e nel ’60 il Senato era costretto a ordinare che non si aumentasse il numero di 206, che già esistevano nelle due isole di S. Marco e Rialto, e contrade. In questi ritrovi, dove nel carnovale si mescolavano bizzarramente le classi e i costumi sociali, svolgevasi più libera e allegra la vita cittadina. Questa commedia reca più di altre l’impronta del tempo in cui fu composta: è un vecchio quadro di colore veneziano, un frammento di Settecento fissato per sempre con la virtù divina dell’arte. Ecco al mattino il campiello, non ancora chiassoso e tumultuoso come altri campielli goldoniani, con la bottega del barbiere accanto al caffè, col «botteghino del giuoco» pure vicino, con la locanda più in là, con l’angolo della casa di Lisaura ballerina. Nella bisca di messer Pandolfo si giocò tutta la notte e si continua a giocare: un garzone d’orefice, un giovane merciaio, il pseudo-conte, il padrone baro, alcuni ignoti che gridano «carte», vi si intravvedono, fin che non sopraggiunge il capitano dei birri. In casa della ballerina, lusingato dalla speranza di sposare il conte avventuriere, non sale, è vero, che l’amante; tuttavia la maldicenza sussurra. Nel caffè dell’onesto Ridolfo entrano e siedono il giovane vizioso, il truffatore contento, la moglie abbandonata dal marito, in abito di pellegrina, la moglie trascurata, in abito di maschera; ma l’eterno cliente, che vi consuma l’esistenza a spiare con l’occhialetto e a malignare, il signore di quel regno è don Marzio, che riempie la bottega della sua voce stridula e tutta la commedia della sua figura: la più vigorosa e compiuta che fin qui sia stata creata sul palcoscenico da Carlo Goldoni ( «C’est la figure la plus creusèe de ce thèâtre»: Ph. Monnier, Venise au 18.e siècle, Paris, 1907, p. 234). Gli altri personaggi, gli altri episodi, mutati i tempi, mutato il luogo, possono scomparire e sono già scomparsi; anzi la lettura ci dispiace spesso per quello che ci presenta di antiquato e di romanzesco: la pellegrina, l’avventuriere, il biscazziere, la ballerina, il bargello, le maschere, le spade in aria; ma don Marzio, racconta argutamente lo stesso autore, «trovò il suo prototipo da pertutto, e mi convenne soffrir talora, benchè innocente, la taccia d’averlo maliziosamente copiato» (v. a pag. 207); e vive fuori di Venezia e di Napoli, fuori del Settecento, tipo universale e profondamente umano, eterno come l’arte. Egli guarda sfacciato col suo occhialetto le generazioni che passano, e a tutte ripete con sorriso maligno: «Per la porta di dietro! Flusso e riflusso.»

Chi mai, di fronte a costui, avrà voglia di ricordare il maldicente di Destouches (le Mèdisant, 1715) o il tristo di Gresset (le Mèchant, 1747) o Frélon di Voltaire (le Cafè ou l’Ecossaise, 1760) o altre pallide ombre di