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LA BOTTEGA DEL CAFFÈ 287

SCENA XVIII.

Ridolfo, Eugenio, Vittoria dal caffè, e Don Marzio.

Don Marzio. (Ecco i tre pazzi. Il pazzo discolo, la pazza gelosa e il pazzo glorioso). (da se)

Ridolfo. In verità, provo una consolazione infinita. (a Vittoria)

Vittoria. Caro Ridolfo, riconosco da voi la pace, la quiete e posso dire la vita.

Eugenio. Credete, amico, ch’io era stufo di far questa vita, ma non sapeva come fare a distaccarmi dai vizi. Voi, siate benedetto, m’avete aperto gli occhi, e un poco coi vostri consigli, un poco coi vostri rimproveri, un poco colle buone grazie, e un poco coi benefizi, mi avete illuminato, mi avete fatto arrossire: sono un altr’uomo, e spero che sia durabile il mio cambiamento, a nostra consolazione, a gloria vostra, e ad esempio degli uomini savi, onorati e dabbene, come voi siete.

Ridolfo. Dice troppo, signore; io non merito tanto.

Vittoria. Sino ch’io sarò viva, mi ricorderò sempre del bene che mi avete fatto. Mi avete restituito il mio caro consorte, l’unica cosa che ho di bene in questo mondo. Mi ha costato tante lagrime il prenderlo, tante me ne ha costato il perderlo, e molte me ne costa il riacquistarlo; ma queste sono lagrime di dolcezza, lagrime d’amore e di tenerezza, che m’empiono l’anima di diletto, che mi fanno scordare ogni affanno passato, rendendo grazie al cielo e lode alla vostra pietà.

Ridolfo. Mi fa piangere dalla consolazione.

Don Marzio. (Oh pazzi1 maledetti!) (guardando sempre con l’occhialetto)

Eugenio. Volete2 che andiamo a casa?

Vittoria. Mi dispiace ch’io sono ancora tutta lagrime, arruffata e scomposta. Vi sarà mia madre e qualche altra mia parente ad aspettarmi; non vorrei che mi vedessero col pianto agli occhi.

  1. Bett.: matti.
  2. Bett. e Pap.: Vittoria, volete.