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574 | ATTO TERZO |
Arlecchino. Domandèghelo a vostro padre, che l’è insatanassado.
Ottavio. Ah sì, me ne sono accorto. Mio padre smania e Rosaura arrossisce.
Fiammetta. Non gli credete...
Ottavio. Taci, bugiarda.
Arlecchino. E mi son sta quello che l’ha introdotto a scuro.
Ottavio. Tu, disgraziato?
Arlecchino. Ma mi no so gnente.
Fiammetta. È uno sciocco, non sa cosa che si dica. (ad Ottavio)
Arlecchino. Se i ho visti mi in camera tutti tre.
Fiammetta. E per questo?
Ottavio. Che cosa faceva Florindo in casa? (a Fiammetta)
Fiammetta. Era venuto per discorrere col padrone.
Arlecchino. Non è vero gnente; anzi el padron non l’aveva da saver.
Ottavio. Ah, che pur troppo dalla sciocchezza di costui, e dall’artifizio con cui vorresti palliarmi la verità, rilevo quanto basta per assicurarmi della mia sventura. (a Fiammetta) Rosaura è un’infedele, e quelle renitenze che ella dimostrava per me, non procedevano da virtù, ma dal cuore prevenuto. Misero Ottavio, donna infida! Non me l’avrei creduto giammai!
Fiammetta. Mi creda, signor padrone...
Ottavio. Taci, donna indegna, e da me aspetta il premio dovuto alle tue imposture.
Fiammetta. Ma senta...
Ottavio. No, non ti ascolto. Mi sentirà Rosaura, mi sentirà quell’infida. (entra in casa)
Arlecchino. E cussì hoio fatto ben, o hoio fatto mal?
Fiammetta. Va al diavolo, bestia, asino, talpa, tronco, macigno, nato per disgrazia ed allevato per la galera. (entra in casa)
Arlecchino. Tutta sta roba a conto de dota. Voio andar a trovar mio cugnà, e finchè1 la cossa è calda, voio che concludemo sto matrimonio. (parte)
- ↑ Zatta: cugnà; finchè.