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572 | ATTO TERZO |
Arlecchino. Ma come hoio da far a no lo dir?
Fiammetta. Non si parla.
Arlecchino. Patirò.
Fiammetta. Orsù, alle corte: io ti comando che non lo dica. (Con costui bisogna far così). (da sè)
Arlecchino. Ti comandi?
Fiammetta. Comando.
Arlecchino. Bisogna obbedir.1
Fiammetta. E se parli, meschino te.
Arlecchino. Cossa me farastu?
Fiammetta. Ti scaccerò come un birbante2, e mi mariterò subito con un altro.
Arlecchino. No parlo più per cent’anni.
Fiammetta. Bravo. Così mi piaci.
Arlecchino. Ma quando concluderemo el negozio?
Fiammetta. Ne parleremo. Fatti vedere obbediente ai miei ordini, e poi parleremo.
Arlecchino. No vôi che ti dighi, parleremo. Vôi che ti dighi, faremo.
Fiammetta. Oh! ecco il padrone.
Arlecchino. Cospetto de bacco! No ti vuol che ghe diga niente?
Fiammetta. Provati!
Arlecchino. Pazienza! No parlerò.
SCENA III.
Ottavio di casa e detti.
Ottavio. (Da che mai procede la nuova confusion di Rosaura? Non la capisco. Mi guarda appena, e sfugge quasi il mirarmi. Mio padre ancora parmi agitato oltre il solito. Il non averli io iersera aspettati, non merita tanto sdegno; alfine mi sono giustificato). (da sè) Voi altri, che fate qui? (a Fiammetta ed Arlecchino)