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Pantalone. Voleu che ve la diga, patroni? Se una chebba de matti. Destrighevela tra de vualtri, e chi ha la rogna, se la gratta. (parte)
Isabella. No, voi non sapete il trattare. (al Cavaliere)
Cavaliere. In quanto a questo, mostrate di saperlo poco anche voi.
Isabella. Impertinente! Così parlate con una dama? E voi state qui, come un asino, e non dite nulla? (al Dottore)
Dottore. Signor Cavaliere, vossignoria parla male; non si tratta così.
Cavaliere. Ho piacere che voi prendiate le parti della contessa Isabella. Con lei, come donna, non potevo prendermi veruna soddisfazione; voi mi renderete conto delle ingiurie, che ella mi ha dette. (parte)
Dottore. (Ora sono nel bell’imbroglio). (da sè)
Isabella. Animo. Signora, andate nelle vostre camere.
Dottore. Vi torno a dire, che qui ci posso stare ancor io.
Isabella. La vostra impertinenza mi provocherebbe a mortificarvi colle mie mani.
Doralice. Le mani le ho ancor io.
Isabella. Ma le donne civili non vengono alle mani. Queste son cose riserbate per le donne vili e plebee. Sono offesa, saprò vendicarmi; ma la mia vendetta sarà da dama qual sono. (parte)
Doralice. Oh quanto mi fa ridere!
Dottore. Ed io, che non sono cavaliere, converrà che per riputazione mi faccia ammazzare alla cavalleresca. Per questo è sempre ben fatto praticar gente da suo pari, perchè la troppa confidenza che un si prende con le persone di rango, a lungo andare precipita chi ha questa pazza ambizione.
Doralice. A buon conto l’ho superata. Ella è partita, ed io sono restata qui nella camera d’udienza. M’impegno colla mia placidezza confondere e superare tutte le più furiose del mondo.