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IL CAVALIERE E LA DAMA 243

Anselmo. Ma, signore, compatisca. Non voglio ch’ella veda i fatti miei.

Flaminio. Sarà qualche gran segreto.

Anselmo. O segreto, o non segreto, la civiltà insegna a non guardare i fatti de’ galantuomini.

Flaminio. Un mercante vorrà insegnare le creanze ad un cavaliere?

Anselmo. Or ora le risponderò. (si ritira in disparte e legge piarìo)

Flaminio. E così, come vi dicevo, quella giovane, stassera verrò a riverire la vostra padrona.

Colombina. Ma chi è in grazia V. S.?

Flaminio. Sono don Flaminio del Zero, quegli che deve favellare a donna Eleonora per ordine di suo marito.

Colombina. Ho capito: ella è il padrone di Balestra. Venga, venga, che è aspettato con ansietà.

Anselmo. Ho inteso tutto. Dite alla vostra padrona che sarà servita. (a Colombina)

Colombina. Sì, signore, ma presto, perchè l’ora s’avanza.

Anselmo. Vado subito al negozio e mando uno de’ miei garzoni.

Colombina. La riverisco, signor Anselmo; serva, signor don Flaminio1. (parte)

SCENA XI.

Don Flaminio ed Anselmo.

Anselmo. Ora sono da lei, signor mio garbato. Le pare stravaganza che un mercante abbia ad insegnare le creanze a lei, ch’è nato nobile?

Flaminio. Certamente; e mi pare anche una temerità il dirlo.

Anselmo. Le dirò, i cavalieri onesti e propri, che conoscono il loro grado e san trattare da quei che son nati, non hanno bisogno di apprendere a trattare civilmente da chi che sia; ma i cavalieri di nome, e che si abusano unicamente del titolo, non son degni di stare a fronte d’un mercante onorato, come son io.

  1. Bett. e Sav.: «Flam. Verrò senz’altro. Col. Venga pure. (Se l’orologio del servitore ha suonato una volta, quello del padrone dovrebbe ribattere tre o quattro volte)».