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NOTA STORICA.
Dal copione alla lezione definitiva subì anche questa commedia forti e notevoli modificazioni. Mista nella primissima forma di lingua e di dialetto, con le maschere e con la parte d’Arlecchino lasciata all’arbitrio dell’attore (v. Ediz. Paperini, I, p. 21), scritta poi per l’Ediz. Bettinelli (vol. II) interamente, venne da ultimo, tolte le maschere, stesa tutta in toscano e opportunanente accorciata. Dei mutamenti operati si giova l’armonia, e ne scapita forse solo la figura del protagonista che, usando in veste di Pantalone il suo dialetto, riusciva più spontanea e più viva. Nota però il De Marchi (Lettere e letterali italiani del sec. XVIII, Milano 1882, p. 306) che Pantalone così non è più la maschera d’una città, ma il tipo più caratteristico della borghesia italiana».
Rappresentata nel sett. del ’50 al Teatro del Cocomero a Firenze (v. Lami, Novelle letterarie, 1751, T. XII., col. 665) e nel carn. dell’anno seguente (stile comune) a Venezia, questa commedia, per la sana ed alta sua tendenza, segna una pietra miliare sul cammino della riforma. Studia il G. nell’intimo di due famiglie l’educazione dei figlioli. Ai propositi moralistici asserve non poco nel disegno dei personaggi e nella trama le ragioni dell’arte. Ingenuamente malvagi i malvagi, ed esubeante di virtuose massime il protagonista. Il quale, se alla bontà del cuore unisse pari accortezza di mente, non s’avvedrebbe d’aver affidato i suoi figlioli a un aio degno di forca, appena quando Florindo si fa reo di libertinaggio delittuoso e di furto. Ma se non peranco nel delineare finemente le figure, l’abilità dell’a. è palese nella disinvoltura onde passa da quadro a quadro, da episodio a episodio. La comm. è ricca di movimento e di vita. Non certo un tissu de platitudes au-dessous de celles que les acteurs italiensl improvisent, come si legge nella Correspondance del Grimm (dec. 1758, p. 56 [Ediz. 1 878]), che per compiacere l’amico Dionigi Diderot aggiunge così le proprie alle villanie già scagliate dall’enciclopedista contro il G. Le ragioni del violento battibecco son troppo note. In verità tra il P. di f. e l’omonima comm. francese non esiste quasi nessun rapporto (v. Toldo, Se il D. abbia imitato il G. in Giorn. storico d. lett. it. 1895, vol. XXVI). Se mai il D. pensò di valersi anche del P. di f., come insinua il Frèron (Annèe littèraire, 1761, III, V) e sembra con abile preterizione ripetere il G. (Premessa al Vero amico, Ediz. Pasquali, VII, p. 165), smise certo l’idea, dopo scoperto il vergognoso suo plagio a danno del Vero amico.
Appena nella premessa alla sua comm. (a. 1765) il G. accenno e assai più tardi nelle Memorie (P. II c. 13 ) disse esplicitamente che la zia presso la quale era stata allevata Rosaura «fait l’allègorie du couvent, ne pouvant pas en Italie prononcer ce mot sur la scene». Così per il precettore Ottavio è solo nella premessa autobiografica all’ottavo vol. del Pasq. che il G. avverte come nel disegnarne la figura si ricordò d’un padre domenicano che, compagno di viaggio a lui dopo l’espulsione dal Collegio Ghislieri. aveva saputo con molta unzione alleggerirlo di trenta paoli e d’altro.
A Firenze il P. di f. era «piaciuto assaissimo, e aveva riscosso applausi da tutti gli spettatori» (Lami, Novelle cit.). Ebbe esito freddo a Ven. (Mem., 1. c). Forse per questo Pietro Chiari pensò di raffazzonarlo a suo arbitrio nel