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IL SERVITORE DI DUE PADRONI 615


Clarice, mia cara nuora, compatitelo il poverino; è stato lì lì per diventar pazzo.

Smeraldina. Via, signora padrona, che cosa volete fare? Gli uomini, poco più, poco meno, con noi sono tutti crudeli. Pretendono un’esattissima fedeltà, e per ogni leggiero sospetto ci strapazzano, ci maltrattano, ci vorrebbero veder morire. Già con uno o con l’altro avete da maritarvi; dirò, come si dice agli ammalati, giacchè avete da prender la medicina, prendetela.

Pantalone. Via, sentistu? Smeraldina al matrimonio la ghe dixe medicamento. No far che el te para tossego. (Bisogna veder de devertirla). (piano al Dottore)

Dottore. Non è nè veleno, nè medicamento, no. Il matrimonio è una confezione, un giulebbe, un candito.

Silvio. Ma cara Clarice mia, possibile che un accento non abbia a uscire dalle vostre labbra? So che merito da voi essere punito, ma per pietà, punitemi colle vostre parole, non con il vostro silenzio. Eccomi ai vostri piedi; movetevi a compassione di me. (s’inginocchia)

Clarice. Crudele! (sospirando verso Silvio)

Pantalone. (Aveu sentio quella sospiradina? Bon segno). (piano al Dottore)

Dottore. (Incalza l’argomento). (piano a Silvio)

Smeraldina. (Il sospiro è come il lampo: foriero di pioggia).

Silvio. Se credessi che pretendeste il mio sangue in vendetta della supposta mia crudeltà, ve lo esibisco di buon animo. Ma oh Dio! in luogo del sangue delle mie vene, prendetevi quello che mi sgorga dagli occhi. (piange)

Pantalone. (Bravo! )

Clarice. Crudele! (come sopra, e con maggior tenerezza)

Dottore. (È cotta). (piano a Pantalone)

Pantalone. Animo, leveve su. (a Silvio, alzandolo) Vegnì qua. (al medesimo, prendendolo per la mano) Vegnì qua anca vu, siora. (prende la mano di Clarice) Animo, tomeve a toccar la man; fe pase, no pianzè più, consoleve, fenila, tolè; el cielo ve benediga. (unisce le mani d’ambidue)

Dottore. Via, è fatta.