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IL SERVITORE DI DUE PADRONI | 563 |
Truffaldino. (Nol sa gnente de quell’alter padron). (da sè)
Florindo. E non sai chi te gli abbia dati?
Truffaldino. Mi no so; me par quel viso averlo visto un’altra volta, ma no me recordo.
Florindo. Sarà un mercante, a cui sono raccomandato.
Truffaldino. El sarà lu senz’altro.
Florindo. Ricordati di Pasquale.
Truffaldino. Dopo disnar lo troverò.
Florindo. Andiamo dunque a sollecitare il pranzo. (entra nella locanda)
Truffaldino. Andemo pur. Manco mal che sta volta non ho falà. La borsa l’ho dada a chi l’aveva d’aver. (entra nella locanda)
SCENA XVIII.
Camera in casa di Pantalone.
Pantalone e Clarice, poi Smeraldina.
Pantalone. Tant’è; sior Federigo ha da esser vostro mario. Ho dà parola, e no son un bambozzo.
Clarice. Siete padrone di me, signor padre; ma questa, compatitemi, è una tirannia.
Pantalone. Quando sior Federigo v’ha fatto domandar, ve l'ho dito; vu non m’ave resposo de non volerlo. Allora dovevi parlar; adesso no sè più a tempo.
Clarice. La soggezione, il rispetto mi fecero ammutolire.
Pantalone. Fe che el respetto e la suggizion fazza l’istesso anca adesso.
Clarice. Non posso, signor padre.
Pantalone. No? per cossa?
Clarice. Federigo non lo sposerò certamente.
Pantalone. Ve despiaselo tanto?
Clarice È odioso agli occhi miei.
Pantalone. Anca sì che mi ve insegno el modo de far che el ve piasa?
Clarice. Come mai, signore?