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IL SERVITORE DI DUE PADRONI | 561 |
Beatrice. Non mi seccate.
Facchino. Adessadesso ghe butto el baul in mezzo alla strada. (entra nella locanda)
Truffaldino. Gran persone gentili che son sti facchini!
Beatrice. Sei stato alla Posta?
Truffaldino. Signor sì.
Beatrice. Lettere mie ve ne sono?
Truffaldino. Ghe n’era una de vostra sorella.
Beatrice. Bene, dov’è?
Truffaldino. Eccola qua. (le dà la lettera)
Beatrice. Questa lettera è stata aperta.
Truffaldino. Averta? Oh! No poi esser.
Beatrice. Aperta e sigillata ora col pane.
Truffaldino. Mi no saveria mai come che la fusse.
Beatrice. Non lo sapresti, eh? Briccone, indegno; chi ha aperto questa lettera? Voglio saperlo.
Truffaldino. Ghe dirò, signor, ghe confesserò la verità. Semo tutti capaci de falar. Alla Posta gh'era una lettera mia; so poco lezer; e in fallo, in vece de averzer la mia, ho averto la soa. Ghe domando perdon.
Beatrice. Se la cosa fosse così, non vi sarebbe male.
Truffaldino. L’è così da povero fiol.
Beatrice. L’hai letta questa lettera? Sai che cosa contiene?
Truffaldino. Niente affatto. L'è un carattere che no capisse.
Beatrice. L’ha veduta nessuno?
Truffaldino. Oh! (maravigliandosi)
Beatrice. Bada bene, veh!
Truffaldino. Uh! (come sopra)
Beatrice. (Non vorrei che costui m’ingannasse). (legge piano)
Truffaldino. (Anca questa l’è tacconada). (da sè)
Beatrice. (Tognino è un servitore fedele. Gli ho dell’obbligazione). (da sè) Orsù, io vado per un interesse poco lontano. Tu va nella locanda, apri il baule, eccoti le chiavi e dà un poco d’aria alli miei vestiti. Quando torno, si pranzerà. (Il signor Pantalone non si vede, ed a me premono queste monete). (parte)