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IL SERVITORE DI DUE PADRONI | 557 |
SCENA XIII.
Truffaldino con un altro facchino che porta il baule di Beatrice, e detto.
Truffaldino s'avanza alcuni passi col facchino, poi accorgendosi di Florindo e dubitando esser veduto, fa ritirare il facchino.
Truffaldino. Andemo con mi... Oh diavol! L’è qua quest’alter padron. Retirete, camerada, e aspetteme su quel canton. (il facchino si ritira)
Florindo. (Sì, senz’altro. Ritornerò a Torino). (da sè)
Truffaldino. Son qua, signor...
Florindo. Truffaldino, vuoi venir a Torino con me?
Truffaldino. Quando?
Florindo. Ora; subito.
Truffaldino. Senza disnar?
Florindo. No; si pranzerà, e poi ce n’andremo.
Truffaldino. Benissimo; disnando ghe penserò.
Florindo. Sei stato alla Posta?
Truffaldino. Signor sì.
Florindo. Hai trovato mie lettere?
Truffaldino. Ghe n’ho trova.
Florindo. Dove sono?
Truffaldino. Adesso le troverò. (tira fuori di tasca tre lettere) (Oh diavolo! Ho confuso quelle de un patron con quelle dell’altro. Come faroio a trovar fora le soe? Mi no so lezer). (da sè)
Florindo. Animo, dà qui le mie lettere.
Truffaldino. Adesso, signor. (Son imbroiado). (da sè) Ghe dirò, signor. Ste tre lettere no le vien tutte a V. S. Ho trovà un servitor che me cognosse, che semo stadi a servir a Bergamo insieme; gh’ho dit che andava alla Posta, e el m’ha prega che veda se gh’era niente per el so padron. Me par che ghe ne fusse una, ma no la conosso più, no so quala che la sia.
Florindo. Lascia vedere a me; prenderò le mie e l’altra te la renderò.