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LA DONNA DI GARBO 471


Florindo. Mi prendo un poco di spasso.

Isabella. Non vorrei che tanto vi perdeste nelle fievolezze.

Florindo. Che volete!1 ch’io pianga?

Isabella. No, ma pensate al vostro impegno. Mi avete levata da Pavia, mia patria, anzi dal seno de’ miei genitori, promettendomi di sposarmi subito che fossimo arrivati in Bologna. Sollecitate dunque questi sponsali.

Florindo. Ma adagio un poco; non abbiate sì gran fretta.

Isabella. Conosco la vostra volubilità. Non voglio che perdiamo tempo.

Florindo. Dimani ne parleremo.

Isabella. Benissimo. Frattanto fatemi assegnare una stanza.

Florindo. Sapete ch’io v’amo e che fo stima della vostra nobile condizione. Ma non siate così rigorosa e severa; datemi almeno una buona occhiata.

Isabella. Eh sì, sì2; vi conosco.

Florindo. Sapete ch’io sono la stessa fedeltà.

Isabella. Basta; lo vedremo.

SCENA XIII.

Dottore e detti, poi Rosaura.


Dottore. Son qui, ho condotta la serva. Dove siete? venite innanzi.

Rosaura. Eccomi, signore.

Florindo. (Stelle! Che vedo!) (vedendo Rosaura)

Isabella. (Colei mi par di conoscerla). (da sè)

Rosaura. E questi il suo signor figlio? (al Dottore)

Dottore. Questi; che ve ne pare?

Rosaura. Permetta, signore, ch’io abbia l’onore di protestarmi sua umilissima serva. (a Florindo) (Il sangue mi bolle tutto). (da sè)

Florindo. (Che incontro inaspettato è mai questo?) (da sè)

  1. Bettin.: Cosa volete?
  2. Bettin. e Paper.: Eh sì, sì, furbacchiotto.