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438 | ATTO PRIMO |
virtuosa a tal segno, e chi sa, se con tutto il suo studio di
tanti anni a Pavia, sia egli arrivato a sapere la metà di quello
che sa questa brava ragazza. Per lo più gli scolari non imparano
che a far all’amore. (parte)
SCENA VI.
Arlecchino colla cuffia e qualche altro ornamento di Beatrice, e collo specchietto in mano con cui si pavoneggia; poi Beatrice, in abito di confidenza.
Arlecchino. Oh bello! Oh grazioso! De chi è mai sto bel viso! De Arlecchin? Oh, no pol esser: eppur son Arlecchin; ma sta bella scuffia, ste belle galanterie fan che no paro Arlecchin: adess capisso perchè tante brutte femene de quando in quando le comparisse belle; per causa della scuffia, del topè, dei rizzi e de qualch’altra bagatella, e nu alter gonzi ghe correm drio: ecco qua. Mi son Arlecchin, e no paro Arlecchin, così qualche brutta diavola co st’imbroi adoss la no par più brutta. Oh, che bellezza! Oh, che grazia! Oh, che vezzo! Oh, che brio! (guardandosi nello specchio)
Beatrice. Arlecchino. (di dentro)
Arlecchino. (Oh diavolo! la patrona; se la me vede, sto fresco!)
Beatrice. Briccone, che fai tu qui?1 (esce)
Arlecchino. Disi la verità, no sto ben co sta scuffia?
Beatrice. Levatela, che ti bastono.
Arlecchino. Eh invidia! Avi paura che para più bello de vu.
Beatrice. Chi è di là?2 V’è nessuno? Rosaura.
SCENA VII.
Rosaura e detti.
Rosaura. Signora, vengo subito. (di dentro)