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IL PRODIGO | 291 |
virla, devertirla. Stassera faremo sta cena, sta festa da ballo. Spero che saremo in assae, spero che no mancherà gnente: cere, sonadori, rinfreschi. Oe, xelo questo el prencipio della economia? No so cossa dir; anca per sta volta, e no più. La zente xe invidada. Son in te l’impegno, e me par de no poderme cavar con reputazion. Za i vinti zecchini xe andai in tanta biscotteria, zuccheri, cedrati e giazzo. Doman principieremo a pensarghe. El formento sarà vendù; se pagherà le spese, e con quel che resta me metterò a far l’economo. Ghe riusciroggio? Ho paura de no. (parte)
SCENA X.
Camera.
Clarice e Leandro.
Leandro. Il proverbio non falla; le donne si sogliono attaccare al peggio.
Clarice. Potrebbe in me verificarsi il proverbio, se mi fossi attaccata1 al signor Leandro.
Leandro. Signora, questa è un’espressione un poco troppo avanzata.
Clarice. Non è avanzata niente meno della vostra.
Leandro. Se parlo così rispetto al signor Momolo, non dico che la verità.
Clarice. Potete parlar di lui senza interessarvi la mia persona.
Leandro. Siete voi persuasa ch’egli non meriti la grazia vostra?
Clarice. Non è necessario che voi lo sappiate.
Leandro. Da quando in qua, signora Clarice, avete appreso a trattarmi sì bruscamente?
Clarice. Dal momento in cui ho scoperto il vostro carattere.
Leandro. Che mai avete in me scoperto di mal costume, che vaglia a meritarmi i vostri disprezzi?
Clarice. Un cuor doppio, una simulazione insidiosa, una falsa amicizia.
- ↑ Edd. Paperini, Savioli ecc.: se mi avessi attaccato.