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286 | ATTO SECONDO |
Clarice. Signor Leandro, vi avanzate un poco troppo, strapazzando un uomo civile.
Leandro. Perdoni, signora, non mi ricordava ch’ei fosse sotto la di lei protezione.
Clarice. Io non sono in grado di protegger nessuno, e potevate risparmiare di dirmi un’impertinenza.
Ottavio. Gran cosa che tutto vi abbia da dar fastidio! Non vedete ch’egli scherza?
Clarice. Almeno la convenienza vorrebbe che, stando in casa di un galantuomo a mangiar e bere e divertirsi, non gli si perdesse il rispetto.
Leandro. Anche questo rimprovero lo capisco. Leverò l’incomodo al signor Momolo e la noia alla signora Clarice.
Clarice. (Sarei pur contenta, s’ei lo facesse). (da sè)
Ottavio. Via, domani se ne anderemo, ma per oggi viviamo in pace, se mai si può. Ecco il signor Momolo. Vi prego in cortesia, conteniamoci con prudenza, già non ha da durar che poche ore.
Clarice. (Per far dispetto a Leandro, vo’ far finezze a quell’altro). (da sè)
SCENA VII.
Momolo e detti.
Momolo. Le compatissa, se femo tardi. El cuogo1 sta mattina xe mezzo storno. Ma adessadesso anderemo a disnar.
Clarice. Non v’inquietate per questo, signore; noi siamo qui per godere soltanto della vostra amabile compagnia.
Momolo. Questa xe un’espression cussì tenera, che la me confonde.
Ottavio. Oggi siamo a godere le vostre grazie, e domani vi leveremo l'incomodo.
Momolo. Cussì presto? La me mortifica; no credo mai... Siora Clarice, pussibile che la me voggia abandonar cussì presto?
- ↑ Zatta: cogo.