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284 | ATTO SECONDO |
Clarice. Mi dispiace bene che il signor Leandro abbia forse ricevute in altro senso, che d’amicizia, le mie finezze e che ora voglia annoiarmi con delle pretensioni ridicole.
Ottavio. Sta in vostra mano il disingannarlo.
Clarice. Sì, certamente; ho già pensato il modo di farlo.
Ottavio. Gli si dice liberamente...
Clarice. Non voglio entrare con lui in un ragionamento serio su tal proposito, ma gli farò comprendere che non ho amore per lui, e che invano perderebbe meco il suo tempo. Principierò fin da ora ad illuminarlo, facendo delle finezze al signor Momolo, e se egli ardirà di correggermi o di motteggiarmi, gli risponderò in modo che non avrà più coraggio di farlo.
Ottavio. Mi piace la bella invenzion del rimedio, e si conosce da questo, che principiate a sentire della passione per il signor Momolo.
Clarice. Mi pare ch’egli la meriti; ma non per questo vorrò ciecamente avventurarmi al pericolo di dovermi pentire. Che cosa avete voi potuto raccogliere dello stato de suoi interessi?
Ottavio. Ho sentito parlarne diversamente. Chi lo fa povero, chi lo fa ricco. Chi loda la sua generosità, chi lo condanna per prodigo. La verità si è, che sono stato in cucina ed ho veduto un apparecchio sontuoso. Senza danari non si fa certo.
Clarice. È vero. Ciò vuol dire che ha del danaro, ma che lo spende senza misura. Oggi verrà qui a favorirmi una di lui sorella, che ho veduta qualche volta in Venezia; so ch' è una donna di garbo, e voglio confidarmi con lei...
Ottavio. Ecco il signor Leandro.
Clarice. Farebbe pur bene ad andarsene. Io certo non lascierò di dargliene eccitamento.
Ottavio. Oibò, non facciamo scene; usate prudenza; s’ei se ne andasse senza di noi...
Clarice. Che gran male sarebbe questo?
Ottavio. Io non lo permetterò certamente.