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capitolo xxix | 81 |
miei disgusti il sacrifizio della mia cena: chiamo il giovine, ordino che apparecchi, e che mi porti subito da mangiare. Non aspettai molto, mangiai bene, bevvi meglio, andai a letto, e riposai con la maggior tranquillità. Quello bensì che mi accadde di straordinario fu che la mattina mi risvegliai due ore più presto del solito. Nello svegliarmi il mio spirito sarebbe inclinato dalla cattiva parte, ma dissi allora a me stesso: su via, su via, in bando il cattivo umore, ci vuol coraggio; si vada dal signor residente di Venezia; egli mi aveva invitato a pranzo; ma è necessario parlargli da solo a solo, conviene dunque andarvi subito. Mi vesto, e ci vado.
Vedendomi il ministro a nove ore di mattina, dubitò che mi avesse là condotto qualche urgente motivo. Mi ricevè alla toeletta; gli feci intendere, che mi davan fastidio i testimoni, ed egli ordinò che tutti escissero: gli raccontai allora l’istoria della veglia, gli delineai al vivo il quadro della conversazione disgustosa, che mi aveva stomacato, gli parlai del giudizio del conte Prata, e terminai con dire, che io era l’uomo più impacciato del mondo.
Si divertì molto il signor Bartolini al racconto della scena comica dei tre attori eroici, e chiese di leggere la mia opera. — La mia opera, o signore? ella più non esiste. — Che cosa ne avete fatto? — L’ho bruciata. — L’avete bruciata? — Sì, signore. Ho bruciato ogni mio capitale, ogni mio bene, la mia fortuna, le mie speranze. — Allora sì, che diè nel ridere il ministro; ma dal riso e dalle ciarle ne risultò, che io restai nella casa di lui, che mi ricevè in qualità di gentiluomo di camera, che mi assegnò un bellissimo appartamento, e che al fin dei conti, nello scacco che avevo toccato, era maggiore il guadagno della perdita. Il mio impiego non mi occupava, che per commissioni piacevoli: andare, per esempio, a complimentare i signori veneti che erano di viaggio, o in casa del governatore, o dai magistrati di Milano per affari della Repubblica. Queste occasioni non erano frequenti, ed avevo perciò tutto il comodo di divertirmi, e scegliere occupazioni di mio piacere. Capitò in questa città al principio della quaresima un ciarlatano di una specie molto rara, la cui memoria merita forse di esser registrata negli annali del secolo. Buonafede Vitali della città di Parma era il suo nome, e si faceva chiamar l’Anonimo. Discendeva da buona famiglia, aveva avuto una eccellente educazione, ed era stato gesuita: sentendo disgusto per il chiostro, si diede alla medicina, ed ottenne la cattedra di professore nell’università di Palermo. Quest’uomo singolare, a cui veruna scienza era straniera, aveva una smoderata vanità di far valere l’estensione del suo sapere; e siccome era miglior parlatore che scrittore, abbandonò il posto onorevole che teneva, e prese il partito di fare il saltimbanco per arringare il pubblico; ma, non essendo abbastanza ricco per contentarsi della pura gloria, traeva profitto dal suo ingegno, e vendeva i suoi medicamenti. Era per lui un bel fare il mestiero del ciarlatano; i suoi specifici erano buoni, e la sua scienza e facondia gli avevano acquistato un credito e una considerazione non così comuni. Risolveva pubblicamente tutte le questioni più difficili che gli venivan proposte in tutte le scienze e materie più astratte. Si proponevano sul suo teatro empirico, problemi, punti di critica, d’istoria, di letteratura, ecc., rispondeva nell’atto, e faceva dissertazioni soddisfacentissime. Pochi anni dopo passò a Venezia, e fu chiamato a Verona, a motivo di una malattia epidemica, che faceva perire chi n’era attaccato. Il suo arrivo in questa città fu come l’apparizione di Esculapio in Grecia, guarì tutti con méle appiole e vino di Cipro. Fu chia-