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76 parte prima


di Garda, in quel medesimo albergo appunto, ove pochi anni avanti avevo corso il rischio di essere assassinato: domandai alla gente dell’osteria, se si ricordavano di questo fatto; mi dissero di sì, e che lo scellerato, dopo aver commessi altri delitti, era stato condannato alla forca. Essendo a cena alla tavola comune, e malgrado il mio dispiacere e l’amorosa mia passione mangiando col miglior appetito del mondo, mi trovai accanto un abate della città di Salò. La conversazione piacevole di quest’abate mi porse occasione di andare a vedere questo grazioso paese, ove si cammina fra verdi piante d’arancio all’aria aperta, costeggiando sempre un lago delizioso. Un’altra ragione però mi determinò a deviare dalla strada, che mi ero prefissa. Mi trovavo molto corto a danari. Avendo per buona sorte mia madre un’abitazione di sua proprietà in Salò, ed essendo io conosciuto dal fittuario, potevo sperare di trarne profitto.

Da Desenzano a Salò non vi erano che quattro leghe, che dall’abate e da me si fecero a cavallo per goder meglio questa piacevole passeggiata, e me ne venni il terzo giorno solo solo, essendomi molto divertito, e con qualche zecchino anticipatomi dal fittuario di mia madre. Pagai al vetturino, che mi aveva aspettato, i suoi tre giorni di fermata, e ripresi la strada di Brescia.

Da Vincenza avevo scritto al signor Novello da me conosciuto a Feltre in qualità di vicario del governo, e che era in quel tempo assessore del governatore di Brescia. Andai pertanto a smontare al palazzo del governo, ove il signor Novello mi fece un’accoglienza graziosissima, e siccome si ricordava di alcune bagattelle comiche da me composte a Feltre, mi domandò la sera, in tempo di cena, se avevo altro dell’istesso genere da fargli sentire. Gli parlai della mia opera: era curiosissimo di sentirla; concertammo adunque per il giorno seguente. Invitò a pranzo varie persone di lettere, che sono in grandissimo numero e degne di somma stima in questo paese, e il giorno appresso, dopo il caffè, lessi il mio dramma, che fu ascoltato con attenzione, ed unanimemente applaudito. I soggetti, che mi avevano giudicato, erano intendenti, dovevo dunque esser contento; fecero inclusive l’analisi della mia composizione. Il carattere di Amalasunta era bene immaginato e ben sostenuto, e poteva passare per una lezione di morale per le regine madri, incaricate della tutela e dell’educazione dei loro augusti figli. I buoni e cattivi cortigiani posti a contrasto formavano un quadro piacevole, e la disgraziata catastrofe di Atalarico, ed il trionfo di Amalasunta, presentavano uno scioglimento, che comprendeva in un tempo istesso la severità che esige la tragedia, e le grazie proprie del melodramma. Il mio stile parve a quest’assemblea giudiziosa più tragico che musicale, ed avrebbero desiderato che io avessi soppresse l’arie e la rima per farne, secondo loro, una buona tragedia. Li ringraziai della loro indulgenza, ma non ero punto inclinato a profittare dei loro consigli. Una tragedia, fosse anche stata eccellente quanto una di quelle di Cornelio e di Racine, mi avrebbe procacciato in Italia molto onore e pochissimo lucro, ed io avevo bisogno dell’uno e dell’altro. Lasciai adunque Brescia, fermamente deciso di non fare la minima variazione sul mio dramma, e di proporlo all’Opera di Milano.

Da Brescia a Milano si poteva andare per una strada più corta, ma io aveva voglia di veder Bergamo; e perciò presi la volta di questa città. Traversando il paese degli arlecchini, guardavo per ogni dove se ravvisavo qualche idea di quel personaggio comico,