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capitolo xxvii 75


gio dato al palazzo in mezzo ancora alle acclamazioni della curia, lascio patria, parenti, amici, amori, speranze, professione. Parto, e metto piede a terra in Padova. Il primo passo era fatto, gli altri non mi costarono più nulla; grazie al mio buon temperamento; eccettuata mia madre, mi scordai di tutto il resto, e il piacere della libertà mi consolò della perdita della mia signorina. Scrissi, partendo da Venezia, una lettera alla madre della sventurata, attribuendo a lei sola la causa immediata del partito al quale ero stato ridotto; rassicurai, che quando fossero state mantenute le tre condizioni, non avrei tardato a ritornare; ma nell’aspettar la risposta seguitavo sempre il mio viaggio. Portai meco il mio tesoro: era l’Amalasunta, che avevo composta nei momenti del mio ozio; e sopra la quale avevo delle speranze, che credevo ben fondate, sapendo che l’Opera di Milano era una delle più considerabili d’Italia e d’Europa.

Mi ero proposto di presentare il mio dramma alla Direzione, che era in mano della nobiltà di Milano, ed avevo fatto il conto, che la mia opera sarebbe stata bene accolta, e che non mi sarebbero mancati cento zecchini; ma a chi fa i conti senza l’oste convien farli due volte.

CAPITOLO XXVII.

Mio viaggio da Padova a Milano. — Fermata in Vicenza e Verona Corsa per il lago di Carda a Salò. — Conforto inaspettato in questa città. — Fermata a Brescia. — Incontro piacevole in Bergamo.

Viaggiando da Padova a Milano, giunsi a Vicenza, ove mi fermai per quattro giorni. Conoscevo in questa città il conte Parmenione Trissino della famiglia del celebre autore della Sofonisba, tragedia composta alla maniera dei Greci, ed una delle migliori produzioni del buon secolo della letteratura italiana. Il signor Trissino era stato da me conosciuto a Venezia fino dalla prima mia gioventù. Avevamo ambidue molto gusto per l’arte drammatica; gli feci vedere la mia Amalasunta che egli applaudì molto freddamente, e mi consigliò ad attendere daddovero all’arte comica, ravvisando in me disposizioni per la medesima. Fui dolente, che non avesse trovato bella la mia Opera, e attribuii la sua freddezza alla preferenza che dava alla Commedia. Vidi con piacere in Vicenza il famoso teatro Olimpico del Palladio, celeberrimo architetto del secolo decimosesto, nativo di questa città, ed ammirai il suo arco trionfale, che senza altri ornamenti che quello della regolarità delle proporzioni, passa per il capo d’opera dell’architettura moderna. Esistono i bei modelli, ma son rari gl’imitatori.

Da Vicenza passai a Verona, ove desideravo conoscere il marchese Maffei, autore della Merope, opera felicissima, imitata con non minor felicità. Quest’uomo versato in ogni genere di letteratura, vedeva meglio di chiunque altro che il teatro italiano aveva bisogno di riforma. Tentò d’intraprenderla, e pubblicò un volume col titolo di Riforma del Teatro Italiano, contenente la sua Merope, e due commedie, le Ceremonie e il Raguetto. La tragedia fu applaudita generalmente, ma le due commedie non ebbero il medesimo successo. Non essendo il signor Maffei in Verona, presi la volta di Brescia, e mi fermai ad alloggio a Desenzano sopra il lago