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capitolo xx 59


quale in questo paese, come in molti altri dello Stato veneto, unisce il suo voto nei giudizi e nelle sentenze a quello del potestà.

Misi pertanto da parte per qualche mese qualunque idea di piacere e di divertimento, e mi occupai con serietà e lavoro, tanto più, che dopo questo secondo governo, nel quale tenevo il posto di coadiutore, potevo aspirare a quello di cancelliere. Percorsi i fogli della cancelleria, e trovandovi una commissione del Senato, trascurata dai miei predecessori, ne resi conto al mio principale, che giudicò l’affare importante, e m’incaricò di continuarlo con tutto l’impegno.

Era questo un processo criminale originato da un taglio di legnami da costruzione fatto nelle foreste della Repubblica, ed erano implicate in questa colpa dugento persone. Abbisognando trasferirsi sul luogo per contestare il corpo del delitto, vi andai io medesimo con agrimensori e guardie, traversando dirupi, torrenti e precipizi. Questo processo faceva grande strepito: era sottosopra tutto il paese, poichè fin da cent’anni si tagliavano i boschi impunemente; vi era perciò da temere qualche tumulto, che avrebbe forse potuto piombare su quel povero diavolo di coadiutore, da cui era stato svegliato il can che dormiva. Per buona sorte questo grandioso processo finì come il parto della montagna. La Repubblica si contentò soltanto di garantire le sue boscaglie per il tempo successivo: il cancelliere non vi perdè nulla, ed il coadiutore restò libero della sua paura. Poco tempo dopo mi s’incaricò di altra commissione molto più piacevole, e di maggior diletto. Si trattava di un processo verbale da eseguirsi dieci leghe lontano dalla città per ragione di una rissa accompagnata da scarica d’armi da fuoco con ferite pericolose. Siccome questo era un paese piano, nel quale vi si cammina costeggiando sempre terre e abitazioni di campagna molto deliziose, impegnai parecchi miei amici a seguirmi; eravamo dodici, sei uomini, sei donne, con quattro servitori. Ciascuno era a cavallo, ed impiegammo dodici giorni in questa piacevole spedizione. In tutto questo tempo non desinammo, nè cenammo mai nel medesimo luogo, e per dodici notti non si prese mai riposo in letto.

Andavamo spessissimo a piedi per strade amenissime circondate di verdeggianti viti, ed ombreggiate da ramose piante di fico; facendo colazione col latte, e qualche volta col quotidiano cibo dei contadini, che è la polenta di granoturco, con la quale ancora si facevano arrosti gustosissimi. Per tutto ove giungevamo si facevano feste, banchetti, allegrie; dove passavamo la sera, vi era ballo, che durava tutta la notte, e le nostre donne sostenevano la loro parte al pari degli uomini. Si trovavano in questa compagnia due sorelle, una delle quali era maritata, l’altra no. Quest’ultima mi andava molto a genio: posso dire che per lei sola avevo messo insieme questo divertimento. Ella era savia e modesta, quanto sua sorella era matta: la singolarità del nostro viaggio ci somministrò il comodo di palesarci a vicenda i nostri sentimenti, onde divenimmo amanti l’uno dell’altra. Il mio processo verbale fu spedito in fretta in due ore di tempo. Nel ritorno prendemmo diversa strada per variar il piacere, ma al nostro arrivo a Feltre eravamo tutti avviliti, rovinati, e rotti, talchè io me ne risentii per un mese, e la mia povera Angelica portò la febbre quaranta giorni.

I sei cavalieri della nostra cavalcata vennero a propormi un’altra sorte di divertimento. Nel palazzo del governo vi era una sala da spettacolo: avevano voglia di cavarne profitto, e mi fecero l’onore di dirmi, che soltanto a riguardo mio avevano concepito il disegno,