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capitolo xv 43


ma quasi abbandonata per motivo della cattiv’aria. Cammin facendo, si passò il Tagliamento, ora fiume, ora torrente, e che bisogna guadare, non essendovi ponti o barche per traversarlo, e finalmente arrivammo a Udine, che è la capitale del Friuli veneziano. I viaggiatori non fanno menzione alcuna di questa provincia, che meriterebbe per altro onorevol luogo nei loro racconti. L’oblio di una regione così considerabile dell’Italia mi è sempre dispiaciuto: ne farò qualche parola io di passaggio.

Il Friuli, che si chiama ancora in Italia la Patria del Friuli, è una vastissima provincia, che dalla Marca Trevisana si estende fino alla Carintia, ed è divisa fra la Repubblica di Venezia, e gli Stati Austriaci. L’Isonzo ne fa la spartizione, e Gorizia è la capitale della parte austriaca. Non vi è provincia in Italia, ove vi sia tanta nobiltà quanta in questa. Quasi tutte le terre sono feudali, e dipendono dai rispettivi loro sovrani, ed ha inoltre il castello d’Udine una sala di parlamento nella quale gli Stati si adunano; singolar privilegio, che non esiste in verun’altra provincia dell’Italia.

Il Friuli ha sempre dati uomini grandi alle due nazioni, e ve ne sono molti alla corte di Vienna, molti nel Senato di Venezia. Esisteva in altro tempo un patriarca di Aquileia, che faceva a Udine la sua residenza, non avendo mai potuto Aquileia risorgere, da che Attila re degli Unni la saccheggiò e la rese inabitabile. Questo patriarcato è stato soppresso da poco in qua, e la sola diocesi che comprendeva l’intiera provincia, è stata divisa in due arcivescovadi, uno a Udine, l’altro a Gorizia. È benissimo tenuta nel Friuli l’agricoltura, ed i prodotti della terra, tanto in grano che in vino, sono abbondantissimi, e della miglior qualità; qui appunto si fa il Picolit, che imita tanto il Tokai, e dalle vigne d’Udine ricava Venezia una gran parte di vini necessari al consumo del pubblico. Il linguaggio friulano è particolare, ed è difficile ad intendersi quanto il genovese, anche per gl’Italiani. Pare che questo gergo si accosti molto alla lingua francese. Tutti i termini femminini, che in Italiano finiscono in a, nel Friuli terminano in e, e tutti i plurali dei due generi sono terminanti in s.

Io non so come queste desinenze francesi, unitamente ad una quantità prodigiosa di voci francesi, abbiano potuto penetrare in un paese sì lontano. È vero che Giulio Cesare passò le montagne del Friuli, le quali per questo hanno pure il nome di Alpi Giulie; ma i Romani non terminavano le loro voci femminili, nè alla francese nè alla friulana. Ciò che vi è di particolare nel comun gergo del Friuli è che chiamano la notte sera, e la sera notte. Verrebbe la tentazione di credere che il Petrarca parlasse dei Friulani allorchè disse nelle sue canzoni liriche: Gente a cui si fa notte avanti sera. Ma ci partiremmo male da questo principio per credere, che questa nazione non sia ingegnosa ed attiva al par d’ogni altra d’Italia. Vi è fra le altre cose a Udine un’accademia di belle lettere sotto il titolo delli Sventati, il cui emblema è un mulino a vento nel grembo di una valle con quest’epigrafe: Non è quaggiuso ogni vapore spento. Le lettere vi si coltivano benissimo. Vi sono artisti di molto merito, e vi si trova conversazione sommamente affabile e graziosa.

Udine, posta a ventidue leghe da Venezia, è governata da un signore veneto, che ha titolo di luogotenente, e vi è inoltre un consiglio di nobili del paese, che tengon seggio nel palazzo della città, ed adempiono alle cariche della magistratura subordinatamente.

La città è bellissima: le chiese sono ricchissimamente decorate, e le pitture di Giovanni d’Udine, scolare di Raffaello, ne fanno il