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capitolo xv | 41 |
Era un domenicano di Palermo, fratello di un famoso gesuita rinomatissimo predicatore; si era imbarcato a Piacenza quell’istesso giorno, dirigendosi a Chiozza come me. Sapeva le mie avventure, che il padrone della barca lo aveva messo al fatto di tutto, e veniva ad offrirmi quelle spirituali e temporali consolazioni, che il suo stato lo poneva in diritto di propormi, e delle quali pareva aver bisogno la mia condizione. Avea nel suo discorso molta dolcezza e molta unzione, e mi parve che gli cadesse qualche lacrima; vidi almeno che avvicinava agli occhi il fazzoletto: mi sentii commosso, e mi abbandonai del tutto alla sua pietà. Intanto il padrone ci fece dire ch’eravamo aspettati; il reverendo non avrebbe voluto perdere la cena, ma vedendomi penetrato di compunzione, fece pregare il padrone di volere attendere qualche momento; indi a me rivolto, mi abbraccia, piange, e mi fa vedere ch’ero in uno stato pericoloso; e che il nemico infernale poteva di me impadronirsi, e trascinarmi in un abisso eterno. Sottoposto, come ho già detto, ad alcuni assalti d’ipocondria, mi trovavo in uno stato da far pietà. Accortosene il mio esorcista, mi propone di confessarmi, ed io mi getto ai suoi piedi: — Benedetto sia Dio, egli dice, fate intanto, figlio caro, la preparazione, io torno subito — e se ne va a cena senza me. Resto in ginocchio, e fo l’esame di coscienza: in capo ad una mezz’ora torna il Padre con una bugia in mano, e si pone a sedere sopra il mio baule: io dico il Confiteor, dando principio alla mia confessione generale con dovuta attrizione e sufficiente contrizione. Si trattava della penitenza: consisteva il primo punto nel risarcire il torto fatto a quelle famiglie, contro le quali avevo lanciati i satirici miei dardi. — Come fare presentemente? — Dovendo voi aspettare, dice il Reverendo, di essere in istato di ritrattarvi, non vi è frattanto che l’elemosina, che possa calmare lo sdegno d’iddio, poichè l’elemosina è la primaria opera meritoria, che scancelli il peccato. — Sì, Padre mio, lo farò. — No signore, replicò egli, il sacrifizio bisogna farlo nell’atto. — Ma io non ho che trenta paoli. — E bene, figlio mio, spogliandosi del danaro che uno ha, si acquista molto maggior merito. — Trassi allora di tasca i miei trenta paoli, e pregai il mio confessore d’incaricarsi di dispensarli ai poveri: accettò volentieri, e mi diede l’assoluzione. Volevo continuare, avendo alcune cose da dire, delle quali credevo di essermi dimenticato, ma il reverendo Padre cascava di sonno, e chiudeva gli occhi ad ogni poco: mi disse bensì, che stessi quieto, mi prese per la mano, mi diede la benedizione, ed andò subito a letto. Restammo per viaggio otto giorni: ogni dì avrei voluto confessarmi, ma non avevo più denaro per la penitenza.
CAPITOLO XV.
- Mio arrivo a Chiozza. — Seguito di aneddoti del reverendo Padre. — Mio viaggio a Udine. — Saggio sopra questa città e sulla provincia del Friuli.
Tremante arrivai a Chiozza col mio confessore, che aveva preso l’impegno di riconciliarmi con i miei genitori. Mio padre era a Venezia per un affare, e mia madre, vedendomi giungere, venne a ricevermi piangendo, non avendo mancato il camarlingo del collegio di avvertire innanzi la famiglia col ragguaglio della mia condotta. Non costò molto al reverendo Padre commovere il cuore di una te-