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capitolo xii 35


aria, e fazzoletti spiegati ci significavano il loro piacere, non meno che i loro applausi. Arrivammo a Cremona circa le sei ore della sera. Era già corso il grido, che vi dovevamo passare, e le rive del fiume erano piene di gente che ci aspettava. Smontammo di barca. Fummo ricevuti con impeto di gioia, e fatti subito passare in una bellissima casa, situata tra la campagna e la città, ove si dette un concerto, e vari musici del paese ne accrebbero il divertimento. Vi fu gran cena, si ballò tutta la notte, e finalmente rientrammo col sole nella nostra nicchia, ove trovammo le deliziose nostre materasse. Fu ripetuta a un bel circa l’istessa scena a Piacenza, alla Stellada, ed alle Bottrighe in casa del marchese Tassoni. In tal guisa fra il riso, i giuochi ed i passatempi, arrivammo a Chiozza, ove io doveva separarmi dalla società più amabile e più piacevole del mondo. I miei compagni di viaggio vollero usarmi la garbatezza dì smontar meco. Li presentai a mio padre, che li ringraziò di cuore, pregandoli inoltre di rimanere a cena in casa sua; ma erano in necessità di restituirsi a Venezia l’istessa sera. Mi pregarono di dar loro i versi da me fatti sul viaggio; chiesi tempo per metterti a pulito, promettendo di spedirglieli, nè mancai. — Eccomi a Chiozza, ove mi annoiavo sempre, secondo il solito. Narrerò in breve il poco che vi feci, e come avrei desiderato affrettarmi a partire. Mia madre aveva fatta conoscenza con una religiosa del convento di San Francesco. Questa era Donna Maria Elisabetta Bonaldi, sorella del signor Bonaldi, notaro ed avvocato veneziano. Le religiose avevano ricevuto da Roma una reliquia del loro serafico fondatore, che si doveva esporre con pompa ed edificazione, e vi bisognava il discorso panegirico. La signora Bonaldi ponendo fiducia nel mio collare, mi credeva già moralista, teologo ed oratore. Proteggeva un giovine abate, che aveva grazia e memoria; mi pregò adunque di comporre il discorso, e di affidarlo al suo protetto, essendo sicura che lo avrebbe portato a maraviglia. Le mie prime parole furono di scusa e di rifiuto, ma riflettendo poi che nel mio collegio si faceva ogni anno il panegirico di Pio V, e che un collegiale per lo più ne assumeva l’incarico, accettai l’occasione di esercitarmi in un’arte, che non mi pareva poi in fondo difficilissima. Feci il mio discorso nello spazio di quindici giorni. L’abatino l’imparò a mente, e lo portò come avrebbe potuto fare un espertissimo predicatore. Il discorso produsse il più grand’effetto: si piangeva, si sputava da tutte le parti, nè si trovava fermezza sopra le sedie. L’oratore si impazientiva, picchiava le mani ed i piedi; crescevano intanto gli applausi, e questo povero diavoletto, non ne potendo più, gridò dal pulpito: Silenzio, e tutti tacquero. Si sapeva benissimo, che era mia composizione: quanti complimenti! quanti presagi felici! Avevo avuto l’arte di dar molto nel genio alle religiose, avendo diretta alle medesime un’apostrofe in una maniera delicata con attribuir loro tutte le virtù senza il difetto della bigotteria. (Avevo piena cognizione di esse, e sapevo benissimo che non erano bigotte). Tutto questo mi guadagnò un magnifico regalo di trine, dolci e ricami.

Il lavoro della mia orazione, ed il pro ed il contro, che ne vennero dietro, mi occuparono tanto tempo, che mi condusse al termine delle vacanze. Scrisse mio padre a Venezia, perchè mi si procurasse una vettura che mi conducesse a Milano: si presentò per l’appunto l’occasione, e andammo a Padova mio padre ed io. Vi era un vetturino milanese sul punto di far la sua gita di ritorno, soggetto conosciutissimo e da fidarsene: partii dunque in un