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capitolo xi 33


subito al proposito che m’interessava, gli dissi: — Sarei troppo ardito, signore, se vi domandassi di qual somma voi siete debitore a mio padre? — Due mila lire, rispose, due mila lire però di questo paese (seicento lire tornesi in circa). Il danaro è là in quella cassetta; — ma non vi metteva le mani. — Signore, io soggiunsi con una curiosità un poco ardita, questa somma è in oro o in argento? — È in oro, replicò egli, in zecchini fiorentini, che dopo quelli di Venezia, sono i più ricercati. — Sono molto comodi, io dissi, a trasportarsi. — Vorreste voi, riprese egli con un’aria burlesca, assumervene l’incarico? — Volentieri, signore, risposi: vi faccio subito la ricevuta, e ne darò avviso a mio padre per rendergliene buono conto. — Ma dissiperete voi, diss’egli, dissiperete voi questo danaro? — Ah! signore, ripresi con serietà, voi mi conoscete: non son capace di una cattiva azione. Mio padre ha destinato il camarlingo del collegio per cassiere del piccolo assegnamento che ritiro: vi professo sull’onor mio, che depositerò gli zecchini in mano di questo degno abate, appena giungo a Pavia. — In conclusione, egli disse, voglio riposare sopra la vostra buona fede: fatemi la ricevuta, di cui ecco l’esemplare che avevo già preparato. — Prendo la penna; il signor Barilli apre la cassetta, e mette gli zecchini sopra la segreteria; io li guardo con tenerezza. — Ma aspettate, aspettate, soggiunge, siete per viaggio, ci sono dei ladri. — Gli faccio avvertire, che vado per la posta, e che non vi è nulla da temere. Credendomi solo, vi trova sempre del rischio. Faccio entrare il fratello del cantiniere, che era la mia guida; il signor Parilli sembra contento, e ripete al medesimo l’istessa predica che a me: io tremo sempre: ma finalmente mi consegna il danaro, ed eccomi consolato. Desiniamo il signor consigliere ed io: vengono dopo pranzo i cavalli, faccio le mie dipartenze, mi pongo in viaggio, e prendo la volta di Pavia. Giunto appena in questa città, vado a depositar gli zecchini nelle mani del mio cassiere, cui ne chiedo sei per me, e me li dà; poi seppi così ben disporre del rimanente di quella somma, che mi bastò per tutto il mio anno di collegio, e per il ritorno. In quell’anno io era un poco meno svagato, che nell’altro; seguitavo le mie lezioni all’università, ed accettavo di rado i divertimenti che mi si proponevano. Nel mese di ottobre e in quello di novembre si addottorarono quattro dei miei compagni. Pare che in Italia non si possa fare veruna cerimonia, che non sia celebrata da un sonetto; avevo il credito di facilità nel far versi, ed ero divenuto il panegirista dei buoni e dei cattivi soggetti. Nelle vacanze del Natale il signor marchese Goldoni venne a Pavia alla testa di una commissione del Senato di Milano per visitare un canale nel Pavese, che aveva dato luogo a parecchi litigi: mi fece l’onore di chiedermi, e di condurmi seco. In capo a sei giorni ritornai al collegio, glorioso della parte onorevole che avevo sostenuta. Questa ostentazione mi fece un torto infinito. Risvegliò l’invidia dei miei compagni, i quali forse da quel momento meditarono la vendetta contro di me, che fecero scoppiare l’anno appresso. Due di loro mi tesero un laccio che, poco mancò, non mi rovinasse. Mi condussero in un cattivo luogo, che non era di mia relazione; volevo partirne, ma le porte erano chiuse: saltai dalla finestra, e ciò fece dello strepito, e il prefetto del collegio lo seppe. Dovevo giustificarmi, e non potevo farlo senza aggravare i colpevoli; in simil caso si salvi chi può. Uno fu espulso, l’altro fu posto in carcere; ma ecco un infinito numero di nemici contro di me. Giungono le vacanze, ed avevo molta voglia di andare a passarle