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capitolo xxviii 341


corte, di una parte di quelli delle Facoltà, e d’altri medici forestieri. Questa Società tiene essa pure le sue adunanze private e pubbliche, e non ha niente che fare col corpo dei dottori reggenti, e molto meno con l’Università di Parigi.

Quest’Università, qualificata col titolo di Fille ainée del re, occupa e per la sua antichità e pel suo ufficio il primo posto tra gli stabilimenti del regno, ed è quella appunto che somministra tanto alla Chiesa come allo Stato uomini capaci di occupare cariche ragguardevoli. Essa è composta delle quattro facoltà, di Teologia, di Legge, Arti, e Medicina. Questi quattro corpi esercitano le loro funzioni separatamente ed in luoghi differenti, riunendosi bensì tutti, quando le occasioni lo esigono, al collegio di Luigi il Grande, ove l’Università tiene le sue sedute, ha il suo tribunale, e dove appunto i diversi collegi mandano i loro convittori ed allievi a ricevere la ricompensa dovuta ai loro meriti. In Parigi i collegi e i convitti sono innumerevoli. È vero che la gioventù talvolta n’esce senza avere acquistato nè scienza, nè costumi. Ma la colpa è forse dell’educazione? io non lo credo. Chi ha fatto cattiva riuscita in una comunità, l’avrebbe fatta anco peggiore, se fosse stato educato in casa propria. I cattivi caratteri sono gl’istessi per tutto, con questa differenza però, che sotto la disciplina d’un direttore sono almeno costretti a frenarsi, laddove nelle proprie case le madri specialmente son quelle che li guastano. Tra questi utili stabilimenti tiene onore voi posto il Liceo situato accanto al Palazzo Reale. Non è instituito dal governo, ma da una società di rispettabili cittadini che lo fondarono e lo mantengono, e che con una discretissima spesa offrono al pubblico comodità d’istruirsi nelle scienze e nelle belle arti. Vi è altresì il Museo in via dell’Observance, vicino ai Francescani, al quale presiede il signor marchese di Gouffier, e dove si aduna un numero di soci, le cui sedute sono utilissime e piacevolissime.

Fu appunto in una di queste adunanze che io vidi ed ammirai il signor Talassi ferrarese, uno di quei maravigliosi ingegni che, sopra qualunque soggetto che gli sia proposto, dicono all’improvviso, cantando, cento versi o strofe, senza mai commettere un fallo, così nella rima, come nel senso. In Italia gli improvvisatori non son rari, ma ve ne sono dei buoni e dei cattivi, e fra tutti quelli che son venuti a Parigi a tempo mio, il signor Talassi è certamente il migliore.

Terminerò questo capitolo col racconto di un avvenimento che dee importare ai letterati, e che è costato un dispiacer sommo alla Francia e all’Europa intiera. Verso il fine dell’anno 1778 venne a riveder la patria il signor Voltaire, e vi fu accolto con acclamazione. Tutti volevano vederlo; felici quelli che potevano parlargli. Io fui di questo numero. Troppe erano le obbligazioni che gli professavo, per non affrettarmi a tributargli personalmente il mio omaggio, e attestargli la mia riconoscenza. È già nota la sua lettera al marchese Albergati senatore di Bologna. Il Voltaire era l’uomo del secolo, perciò non durai gran fatica ad acquistarmi, sotto i suoi auspicii, una reputazione in Francia. Non starò a far l’elogio di quest’uomo celebre. Egli è già troppo noto, e generalmente stimato. Il suo genio altrettanto fecondo quanto istruttivo e splendido, comprendeva tutte le classi della scienza e della letteratura; aveva inoltre uno stile originale, che egli sapeva appropriare alle differenti materie, dando nobiltà al brio, e grazia al serio. Insomma il signor Voltaire fu per qualche mese la delizia di Parigi. Soggetto però ad una abituale malattia, che avrebbe forse potuto