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32 | parte prima |
nammo in fretta e andammo a letto presto. Sempre almanaccavo sopra la mia condizione, ed ero perfin tentato di chiedere in imprestito cento scudi al mio caro parente, che mi pareva tanto buono e compito; ma egli non aveva più verun debito con mio padre, avendo corrisposto anche avanti la scadenza coi due ultimi pagamenti, e temevo che la mia età e la mia qualità di scolare non fossero garanzie troppo sicure per inspirargli fiducia. Andai a letto in compagnia delle mie irresoluzioni e de’ miei timori, ma grazie al cielo, nè gli impicci, nè i dispiaceri, nè le riflessioni ebbera mai il sopravvento sul mio appetito e sul mio sonno. Dormii dunque tranquillamente. Il giorno dopo, il signor consigliere mi fa interrogare, se io voglia far colazione in sua compagnia. Essendo io già vestito, ed in ordine, scendo e tutto era pronto. Un brodo per il mio ospite, ed una tazza di cioccolata per me. Facendo colazione e chiacchierando, ecco come la conversazione divenne interessante. — Mio caro figlio, mi disse, io son vecchio, ho avuto un pericoloso colpo, ed aspetto di giorno in giorpo gli ordini della Provvidenza per sloggiare da questo mondo. — Io voleva replicare con quelle cortesi espressioni, che sogliono usarsi in simili casi; ma m’interruppe, dicendo: — Da parte le lusinghe, amico mio, siamo nati per morire, e la mia carriera è inoltratissima. Ho soddisfatto vostro padre riguardo ad un resto di dote, che la mia famiglia doveva alla sua; ma scartabellando i fogli ed i registri de’ miei affari domestici, ho trovato un conto aperto tra il signor Goldoni, vostro nonno, e me. — Oh cielo! (diceva fra me stesso) gli saremmo noi forse debitori di qualche cosa? — Ho bene esaminato, aggiunse il consigliere, ho ben collazionato le lettere ed i libri, e son sicuro di dovere ancora una somma ai suoi successori. — Respiro: voglio parlare, egli mi interrompe sempre, e continua il suo discorso. — Non vorrei morire, dic’egli, senza adempiere il mio dovere: ho eredi, che non aspettano che la mia morte per dissipare i beni che ho loro mantenuti, e il vostro signor padre stenterebbe molto a farsi pagare. Ah! se fosse qui, con qual piacere, proseguì egli, gli darei questo danaro? — Signore, io ripresi con un’aria d’importanza, io sono pur suo figlio: pater et filius censentur una et eadem persona, dice Giustiniano, e voi lo sapete meglio di me. — Ah ah! disse egli, voi dunque studiate legge? — Sì, signore, risposi, sarò addottorato quanto prima, e anderò a Milano, dove penso esercitare la professione di avvocato. — Mi guarda sorridendo, e mi domanda: — Che età avete voi? — Ero un poco imbrogliato, poichè la mia fede di battesimo e il mio ricevimento in collegio non andavano d’accordo: risposi nulladimeno con sicurezza, e senza mentire: — Signore, io ho in tasca le patenti del mio collegio: volete voi vederle? Vedrete, che sono stato ricevuto di diciotto anni compiti; corre il mio secondo anno; diciotto e due fanno venti: io entro nel vigesimo. Annus inceptus habetur pro completo, e secondo il codice veneto si acquista la maggioranza di ventun’anno. — Cercavo d’imbrogliar l’affare, ma in sostanza non ne avevo più che diciannove.
Il signor Barilli però non si lasciò prender nella rete: vedeva bene che io era ancora nella minore età, e che avrebbe rischiato il suo danaro. Avevo però una raccomandazione di mio padre a mio favore: come dovea credermi capace d’ingannarlo? Ma mutò discorso: mi domandò, perchè non avessi abbracciata la professione di mio padre, e non parlò più di danaro.
Risposi, che il mio genio non era per la medicina; e ritornando