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capitolo ix | 29 |
Ricevei dunque la tonsura per mano del cardinale Cusani arcivescovo di Pavia: e uscito dalla cappella di sua eminenza andai con mio padre a presentarmi al collegio.
Il superiore, che si chiama Prefetto, era l’abate Bernerio, professore di gius canonico nell’università, protonotario apostolico, che godeva, in virtù di una bolla di Pio V il titolo di Prelato, suddito immediato della Santa Sede.
Fui ricevuto dal prefetto, viceprefetto e camarlingo, Mi fanno una breve predica, mi presentano ai più anziani del collegio, ed eccomi allogato: mio padre mi abbraccia, mi lascia, e il giorno dopo prende la volta di Milano per ritornarsene a casa. Abuso forse un poco troppo della vostra compiacenza, mio caro lettore, trattenendovi con frivolezze, che non debbono importarvi, e che di più non vi divertono. Ma vorrei parlarvi di questo collegio, ove avrei dovuto fare la mia sorte, e dove feci la mia disgrazia. Vorrei confessarvi i miei errori, e nel tempo stesso provarvi che nella mia età e nello stato in cui mi trovavo, era necessaria una virtù superiore per evitarli. Ascoltatemi con sofferenza.
Eravamo in questo collegio ben trattati e benissimo alloggiati. Avevamo la libertà di escire per andare all’università, ed andavamo per tutto. L’ordine era di escire a due a due, e così ritornare. Noi però ci lasciavamo alla prima strada che voltava, assegnandoci un punto di riunione per il ritorno nel modo ordinato; e se rientravamo soli, il portinaio la prendeva in celia, e non ne faceva parola. Questo posto equivaleva per lui a quello di guarda portoni di un ministro di Stato.
Eravamo ben forniti di abiti e con l’eleganza medesima degli abati, che girano per le conversazioni: panno d’Inghilterra, seta di Francia, ricami, e guarnizioni, con una specie di veste da camera senza maniche per sopravveste ed una stola di velluto appesa alla spalla sinistra con l’arme Ghislieri ricamata in oro e argento sormontata dalla tiara pontificia, e dalle chiavi di san Pietro. Questa toga chiamata sovrana, che è la divisa del collegio, dà un’aria d’importanza, che reprime la bizzarria della gioventù. Questo collegio non era, come vedete, una comunità di fanciulli: si faceva precisamente ciò che piaceva, ed eravi molta dissipazione nell’interno, molta libertà nell’esterno. Ivi ho imparato la scherma, il ballo, la musica ed il disegno, come pure tutti i giuochi possibili di trattenimento e di azzardo. Questi ultimi, benchè proibiti, erano ciò nondimeno frequenti e quello della primiera mi costò caro.
Quando eravamo esciti, guardavamo l’università da lontano, e andavamo a rimpiattarci nelle case più piacevoli. In Pavia pure sono riguardati i collegiali come gli uffiziali di guarnigione: li detestano gli uomini, e le donne li ricevono.
Piaceva alle signore il mio gergo veneziano, che mi dava qualche vantaggio sopra i compagni: la mia età e la mia figura non dispiacevano: le mie strofette e le mie canzoni non erano ascoltate con disgusto. Era mia colpa se impiegavo male il tempo? Sì; perocchè, in quaranta che eravamo, ve ne erano alcuni savi e costumati, che avrei dovuto imitare: ma non avevo che sedici anni; ero allegro, ero debole, amavo il piacere, e mi lasciavo sedurre e rapire.
Basta così per questo primo anno di collegio: si avvicinano le vacanze, che cominciano verso la fine di giugno, e non si torna che alla fine di ottobre.