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capitolo viii | 285 |
dice: A tantót. Tantosto in italiano è l’istessa cosa che immediatamente; onde secondo il significato di questa parola, credetti che la principessa volesse prender lezione appena esciva da pranzo; però mi trattengo, e aspetto con quella pazienza che l’appetito potea permettermi; finalmente all’ore quattro della sera la prima cameriera mi fa entrare. La principessa, aprendo il libro, mi fa l’interrogazione che aveva costume di farmi quasi ogni giorno; mi domanda, ove quella mattina ero stato a pranzo. — In verun luogo, principessa — io le risposi. — Come! (ella riprese) non avete ancor desinato? — No, principessa. — Vi sentite male? — Principessa, no. — O dunque, per qual ragione non avete desinato? — Perchè ella, principessa, mi fece l’onore di dirmi à tantót. — Ebbene, questa parola detta alle due, non vuol dire almeno a quattr’ore dopo mezzodì? — Può essere, ma in italiano vuol dire immediatamente. Ella ride a queste parole, chiude il libro, e mi manda a desinare. Benchè parecchi vocaboli francesi abbiano molta somiglianza cogli italiani, il loro significato però è affatto differente; ond’io prendeva spesso dei qui pro quo: e posso ben dire che quel poco di francese ch’io so, l’ho acquistato nei soli tre anni del mio impiego allato alle principesse di Francia. Leggevano esse i poeti e prosatori italiani, ed io balbettava una cattiva traduzione dei medesimi in francese, ch’elleno ripetevano con grazia ed eleganza; così il maestro imparava più di quello che potesse insegnare.
Ritornato a Versailles, la salute del principe Delfino pareva che andasse molto meglio; e siccome amava assai la musica, la principessa Delfina teneva nel proprio palazzo accademie per divertirlo. In tale occasione composi una cantata italiana; e fattane scrivere la musica ad un maestro italiano, la presentai a questa principessa, che nell’accettarla mi ordinò con somma bontà d’andarne ad ascoltare l’esecuzione dopo cena del suo appartamento. In quest’occasione imparai un’etichetta di corte, che per l’avanti mi era ignota. Entro nelle stanze reali verso le dieci ore di sera, e presentatomi alla porta della stanza dei nobili, non mi viene dall’usciere impedito l’ingresso. Siccome il Delfino e la Delfina erano tuttavia a tavola, prendo posto ancor io in quella stanza per il piacere di vederli cenare; quando mi si appressa una dama di servizio, e mi domanda se io aveva il permesso per l’ingresso della sera. — Non so (le risposi) qual differenza passi dall’ingresso del giorno a quello della sera: è la principessa stessa che m’ha dato ordine di venire nel suo appartamento dopo cena. Sono forse venuto troppo presto; ma non sapevo l’etichetta. — Signore (riprese allora la dama), non l’ho detto per voi, voi ci potete restare liberamente. — Confesso che in questa occasione il mio amor proprio non restò mal soddisfatto. Rimango, e rientrati di nuovo il principe e la principessa nella loro stanza, son chiamato, e si dà principio alla mia cantata. La Delfina era al cembalo, la principessa Adelaide accompagnava col violino, e la signorina Ardy (oggi signora di la Brusse) cantava. La musica piacque, e l’autore delle parole ricevè tutte le espressioni e i complimenti con la maggior modestia. Ero per andarmene, ma il Delfino ebbe la bontà di farmi restare; cantò egli pure, ed io godei l’onore di ascoltarlo. Ma che cantò egli mai? un’aria patetica, tratta da un oratorio intitolato Il Pellegrino al Sepolcro. Un giorno più dell’altro questo principe andava perdendo la salute. Si faceva però coraggio, e la brama di tener quieta sul suo stato la corte, gli somministrava forze in pubblico, mentre egli soffriva in segreto.
Il re andava regolarmente tutti gli anni a passare nell’estate sei