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capitolo vii 283


ed essa mandava tutte le volte a prendermi con la carrozza, ove appunto poco mancò che non perdessi un giorno la vista. Avevo la mania di leggere camminando, ed il libro che teneva allora occupata la mia mente era quello delle lettere di Giacomo Rousseau. Un giorno improvvisamente mi manca la vista, mi cade il libro di mano, nè vedo quanto basti per trovarlo e raccoglierlo: mi credevo perduto. Restavami bensì tanta facoltà visiva da distinguer la luce; smonto dal legno, salgo all’appartamento, ed entro tutto scomposto ed agitato nella stanza della principessa. Pur troppo ella s’accorse del mio turbamento, e mi usò subito la bontà di domandarmene la cagione: ma io non ardiva palesarle il mio stato, sperando di poter bene o male adempiere al mio dovere. Trovato al solito posto lo sgabelletto, seggo secondo il costume; riconosco a maraviglia il libro che dovevo leggere, l’apro, ma, oh cielo! altro non vedevo che bianco; eccomi adunque costretto a confessare la mia disgrazia. Non è possibile esprimere la bontà, il profondo rincrescimento e la compassione di questa gran principessa; ella ordina immediatamente che si cerchino nella sua camera acque salutari alla vista, mi concede gentilmente il permesso di bagnar con esse i miei occhi, e fa subito accomodare le tende della finestra in modo da non introdurre nella stanza altra luce se non quella che poteva bastare per distinguere gli oggetti: a grado a grado riacquisto la vista, veggo poco, ma veggo tanto che basta. Non furono già le acque apprestatemi la vera causa del miracolo; bensì le buone grazie della principessa, che restituirono forza al mio spirito ed ai miei sensi. Riprendo pertanto il libro, e mi riconosco in stato di leggere; ma nonostante la principessa non lo permette. Mi congeda, mi raccomanda al suo medico; in somma in pochi giorni l’occhio destro riprende la sua solita attività, ma l’altro è perduto per sempre. Io son dunque cieco da un occhio, ma questo è un piccolo incomodo, che non mi dà gran pena, tanto più che non si manifesta esternamente; ma in certi casi serve ad accrescere i miei difetti e a rendermi più ridicolo. Ad un tavolino di giuoco, per esempio, divengo incomodo alla conversazione, essendo necessario che il lume sia per l’appunto situato dalla mia parte buona; perchè se nella partita vi è una signora che trovisi nel caso stesso, ella certamente non oserà manifestarsi, ma bensì dichiarerà ridicola la mia pretensione. Infatti, al giuoco detto il brelan si mettono i lumi in mezzo della tavola, ma io non ci vedo; come pure all’altro detto whist, ed ai tressetti, ove si muta compagno, è necessario che io porti il lume meco. Oltre di ciò, indipendentemente anche dal difetto della vista, ne ho ancora dei più bizzarri e singolari: io temo il caldo nell’inverno, il freddo nell’estate; mi bisognano però dei parafuochi per difendermi dall’azione del calore, laddove una finestra lasciata aperta la sera, nei caldi anche più eccessivi, mi fa subito infreddare. Posto ciò, io non comprendo come alcune signore, che ho l’onore di conoscere, possano soffrirmi, e mi lascino prender carte per essere della loro partita; ciò dipende senza dubbio dall’essere elleno buone, affabili, cortesi, dal sapere io giuocare ad ogni sorta di giuoco, dal non ricusar mai nessuna partita, da non spaventarmi al giuoco grosso, dal non annoiarmi al piccolo, dal non essere cattivo giuocatore, in una parola dall’essere, eccettuati i miei difetti, il bonomo della conversazione.