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276 | parte terza |
minato il suo tempo, volle ritirarsi e godere la sua pensione. Dopo alcuni anni gli ritornò la voglia del teatro, ed era appunto quello il giorno nel quale compariva nuovamente in scena. Furono immensi gli applausi che riscosse al suo primo presentarsi sulla scena, e ciò dava a conoscere il conto che il pubblico faceva di lui; ma in una certa età, spiritus promptus est, caro autem infirma; onde non restò sul teatro comico che poco tempo, e quest’appunto è la ragione, per la quale io non ho fatto menzione di lui nel capitolo precedente. In quanto a me, io lo trovava eccellente, e lo preferiva a molti altri, a motivo della sua bella voce; e siccome il mio orecchio non era ancor troppo famigliare con la lingua francese, perdevo molto nelle conversazioni, ed assai più al teatro. Per buona sorte la commedia del Misantropo non m’era ignota, essendo appunto quella fra le composizioni del Molière, che stimavo sopra ogni altra come lavoro di una perfezione senza pari, e che, indipendentemente dalla regolarità della sua condotta e da tante altre sue particolari bellezze, aveva il merito dell’invenzione e della novità dei caratteri. Gli autori comici così antichi come moderni avevano fin allora messo in iscena i vizi e i difetti dell’umanità in generale; il solo Molière fu il primo, che ardì esporre i costumi e le ridicolezze del suo secolo e del suo paese.
Con piacere infinito vidi rappresentare in Parigi questa commedia da me tanto lodata ed ammirata in patria, e quantunque non comprendessi a fondo quello che dai comici si diceva, e molto meno da quelli che più spiccavano per una certa leggerezza che io vedeva applaudire, e che era per me incomodissima, con tutto ciò comprendevo abbastanza per ammirare la giustezza, la nobiltà e la forza dell’azione di quegli attori incomparabili. Ah! (dicevo allora tra me) se potessi anch’io vedere una delle mie composizioni rappresentata da simili attori, benchè la migliore delle mie opere non equivalga all’ultima del Molière, ciò non ostante lo zelo, l’attività dei Francesi la farebbero spiccare assai più che nella mia patria. A dir vero, questa potea dirsi una scuola di declamazione: nulla di forzato nel gesto e nell’espressione; il passo, il moto delle braccia, gli sguardi, le scene mute sono studiate: sotto il prestigio della naturalezza l’arte occulta lo studio. In una parola escii incantato dal teatro, e desideroso di veder riuscire una di queste due cose: o di giungere a dare ai Francesi una delle mie commedie, ovvero di vedere i miei compaesani in istato d’imitarli. Ora, quale di queste due cose poteva mai essere la più difficile ad avverarsi? Al tempo solo era riserbata la soluzione di tale problema.
Frattanto io non lasciava mai i Francesi; essi avevano rappresentato l’anno avanti Il Padre di famiglia del signor Diderot, commedia nuova e che aveva avuto incontro, quantunque comunemente si andasse dicendo in Parigi esser ella un’imitazione della commedia da me composta sotto questo titolo, e già stampata. Volli adunque vederla, ma non vi riconobbi somiglianza alcuna con la mia; onde dal pubblico a torto si accusava di plagio questo poeta filosofo, questo autore stimabile; ed era un foglio dell’Annata Letteraria che aveva dato motivo a questa supposizione. Poco tempo avanti il signor Diderot aveva dato in luce una commedia intitolata Il figlio naturale, della quale il signor Fréron aveva già fatto menzione nella sua opera periodica, ed aveva trovato in essa molta somiglianza col Vero Amico del Goldoni; furono trascritte dal medesimo perfino scene intiere francesi, e poste accanto alle italiane. Da questo confronto sembrava che le une e le altre discendessero da una sorgente medesima, e il giornalista finiva quest’articolo dicendo: che