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272 parte terza

deva in egual modo le due lingue, e ne conosceva l’indole. Vari sinistri accidenti però avevano infievolito la sua mente ed alterato la sua salute; contuttociò la sua maniera di recitare manifestavasi sempre della scuola di Silvia da cui era stato messo al mondo, e di Lelio e Flamminia che avevano contribuito all’educazione di lui. La signora Savi prima attrice, e la signora Piccinelli, ch’era la seconda, non avevano disposizioni troppo felici per la commedia: erano bensì giovani; onde l’una con la buona volontà, e l’altra con la grazia del canto potevano giungere col tempo a rendersi utili. La prima morì poco tempo dopo, e la seconda lasciò il Teatro comico per esporsi nuovamente su quello dell’Opera in Italia. Vedevo pertanto nei giorni d’Opera buffa un’affluenza di popolo da stupire, e in quelli delle commedie italiane la sala era vuota affatto; ciò per altro non mi sbigottiva, considerando, che i miei cari compatriotti non esponevano se non che vecchie commedie a braccia e di pessimo gusto, di quel medesimo che io aveva riformato in Italia. Io produrrò, diceva dunque a me stesso, cose che abbian carattere, sentimento, condotta, connessione, stile. Mettevo a parte di tutte le mie idee anche i comici. Gli uni m’incoraggiavano a proseguire il disegno propostomi, gli altri non mi domandavano se non se farse: quelli che desideravano le commedie scritte, erano amorosi; gli altri, attori buffi, che, assuefatti a non imparar nulla a mente, avevano l’ambizione di spiccare senza darsi alcuna pena di studiare. Mi risolvei adunque di aspettare qualche poco, prima di dar principio al mio ufficio, e domandai perciò quattro mesi di tempo, affine di esaminar bene il genio del pubblico, ed istruirmi sul vero modo di piacere a Parigi; onde non feci altro in tutto questo intervallo che vedere, girare, passeggiare, godere. Parigi è un mondo; tutto vi è in grande; havvi molto male, havvi molto bene. Portatevi agli spettacoli, ai passeggi, ai luoghi di piacere; tutto è pieno. Andate per le chiese; folla per tutto. In una città di ottocento mila anime bisogna per necessità che vi siano galantuomini e viziosi più che in qualunque altro luogo; vi è dunque da scegliere. Il dissoluto trova facilmente il modo di soddisfare le sue passioni, e l’uomo da bene si vede incoraggito all’esercizio delle proprie virtù. In quanto a me, io non era nè troppo felice per mettermi nella classe di quest’ultimi, nè così sciagurato per lasciarmi trascinare al mal costume. Continuai in Parigi la consueta mia maniera di vivere, amando i piaceri onesti, e facendo stima delle persone nate per l’altrui edificazione. Per altro quanto più m’inoltravo, mi trovavo confuso nei diversi ceti, nelle varie classi, nelle differenti maniere di vivere e di pensare. Non sapevo più quello che ero, quello che volevo, ciò che fossi per diventare. La farragine di tante cose mi aveva compiutamente occupato; dimodochè vedevo il bisogno di ritornare in me stesso, ma non ne trovavo, o, per dir meglio, non ne cercavo i mezzi. Per buona sorte la corte trasferivasi a Fontainebleau, ove dovevano andare anche i comici, per esporvi le loro commedie. Io pure li seguitai con la piccola mia famiglia, e trovai in codesto delizioso soggiorno la tranquillità e il riposo che avevo sacrificato ai divertimenti della capitale. Vedevo ogni giorno la famiglia reale, i principi del sangue, i grandi del regno, il ministero francese, il ministero estero. Tutti concorrono a quel castello. Vi era accesso negli appartamenti tanto al mattino, quanto nel tempo del pranzo, e si seguiva la corte a messa, a caccia, allo spettacolo, senza suggezione, senza incomodo e senza confusione. Fontainebleau non è nè grande nè ricca, nè vanta ornamenti, ma la sua situazione