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capitolo xlvi | 265 |
aveva egli pure la sua Laura a Venezia, onde cantava da lungi le grazie e le doti intellettuali della bella Aurisbe Tarsense, pastorella arcade, dalla quale andavo ogni giorno. Il Frugoni, di me geloso, non aveva rincrescimento della mia partenza. Avevo anche da presentare alcuni libri a S. A. S. la principessa Enrichetta di Modena, vedova duchessa di Parma e in ultimo Landgravia d’Armstadt. Questa principessa, che risedeva al Borgo San Donnino tra Parma e Piacenza, si trovava allora a Corte Maggiore sua villa. Deviai alcune miglia, per avere l’onore d’ossequiarla; fui benissimo accolto, benissimo alloggiato tanto io come tutta la mia gente, e vi passammo tre giornate deliziosamente. Alcune dame ed alcuni cortigiani, che recitavano le mie commedie sul teatro della Landgravia, avrebbero voluto darmi un piccolo divertimento: ma il caldo era eccessivo, ed io doveva partire per Piacenza. Giunto in questa città fummo colmati di nuove garbatezze e di nuovi piaceri. Il marchese Casati, uno de’ miei soscrittori, ci attendeva con impazienza, e nella sua casa trovammo quanto può mai desiderarsi di dilettevole: bel quartiere, sontuoso trattamento, amabile compagnia. La signora marchesa poi, e la sua nipote ci procurarono tutti i passatempi possibili; onde ci restammo quattro giorni: non volevano in alcun modo lasciarci venir via; ma avendo perduto troppo tempo ed essendo già tre mesi che eravamo usciti da Venezia, malgrado un caldo insoffribile convenne partire. Appunto in Piacenza dovevo sceglier la strada per passare in Francia; ma siccome mia moglie desiderava vivamente di rivedere i suoi parenti prima di lasciar l’Italia, preferii adunque per contentarla, la strada di Genova a quella di Torino. Passammo otto giorni molto allegramente nella patria della mia sposa: onde nell’istante della nostra partenza i pianti ed i singulti non ebbero mai fine. Si rendeva tanto più dolorosa la nostra separazione, in quanto che i nostri parenti disperavano di più rivederci. Promettevo, è vero, di ritornare a capo a due anni, ma essi non lo credevano; insomma, fra gli addii, gli abbracciamenti, i pianti, i gridi, imbarcammo nella filuga del corriere di Francia, e si fece vela verso Antibo, costeggiando sempre quelle piaggie chiamate dagl’Italiani Riviera di Genova. Un uragano però ci discostò dalla rada, e poco mancò che non fossimo sommersi nel passare il capo di Noli. Diminuì per altro il mio spavento una bella scena avvenuta in quel frattempo. Trovavasi nella filuga un Provinciale carmelitano, da cui storpiavasi l’italiano nel modo stesso che da me si scorticava il francese. Questo frate davasi in preda al maggiore spavento ogni qualvolta vedeva venire da lungi una di quelle montagne d’acqua che minacciavano di sommergerci. Gridava allora a gola aperta: la voilà, la voilà; e siccome in italiano si dice la vela per dire in francese la voile, credetti che il carmelitano pretendesse che i marinai raddoppiassero le vele, e perciò volevo fargli conoscere l’errore in cui era, ma egli sosteneva intrepidamente che quanto da me dicevasi non aveva senso comune. Nel tempo pertanto di tale controversia si passò felicemente il Capo, ed entrammo in rada. Allora soltanto riconobbi il mio torto, ed ebbi la schiettezza di confessare da me stesso la mia ignoranza.
Questa burrasca c’impedì la continuazione del viaggio, ed il corriere che non poteva fermarsi, prese il cammino di terra a cavallo, esponendosi ad attraversar montagne molto più pericolose del mare. Non fu possibile prender nuovamente imbarco che dopo quarantott’ore; ma siccome il mare era tuttavia in tempesta, presi terra a Nizza, ove le strade erano almeno praticabili. Lasciai la filuga, e