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capitolo vi 23


tissima di vedermi riconciliato con mio padre. Gli parla dell’abate Gennari, non per impedirmi di andare alla commedia, poichè mio padre l’amava quanto me, ma per farlo consapevole che questo canonico, affetto da diverse malattie, lo aspettava con impazienza; egli aveva parlato a tutta la città del famoso medico veneziano allievo del celebre Lancisi, ch’era aspettato quanto prima, e doveva soltanto mostrarsi, per aver più malati di quello che ne potesse desiderare. Successe così di fatto: ognuno voleva il dottor Goldoni; aveva i ricchi ed i poveri, ed i poveri pagavano meglio dei ricchi.

Prese dunque a pigione un appartamento più comodo, e si stabilì a Chiozza, per restarvi fintantochè la fortuna gli si mantenesse favorevole, o che qualche altro medico alla moda non fosse venuto a soppiantarlo. Vedendomi ozioso e mancando nella città buoni maestri per occuparmi, volle egli stesso far qualche cosa di me. Mi destinava alla medicina, e nell’aspettare le lettere di chiamata per il collegio di Pavia mi ordinò di andar seco alle visite che giornalmente faceva. Era di pensiero, che un poco di pratica precedentemente allo studio della teorica fosse per darmi una cognizione superficiale della medicina, e fosse per essermi utilissima all’intelligenza dei termini tecnici, e dei primi principii dell’arte. Non era la medicina di troppo mio piacere, ma non bisognava esser recalcitrante, poichè si sarebbe detto che io non voleva far nulla. Seguitai dunque mio padre; vedevo con lui la maggior parte dei malati, tastavo i polsi, guardavo le orine, esaminavo gli sputi, e molte altre cose che mi ributtavano. Pazienza. Fintantochè la compagnia continuò le sue recite, che ella eseguì insino a trentasei, credei compensata ogni mia perdita. Era mio padre molto contento di me, e più ancora mia madre; ma uno dei tre nemici dell’uomo, e forse due, o tutti e tre vennero ad assalirmi, ed a turbar la mia pace. Fu chiamato un giorno mio padre in casa di una ammalata molto giovine e molto bella: mi condusse seco, non avendo il minimo sentore di qual malattia si trattasse. Quando vide che bisognava fare delle ricerche e delle osservazioni locali, mi fece escire, e da quel giorno in poi, tutte le volte ch’entrava in camera della signorina, ero condannato ad aspettarlo in una piccolissima ed oscurissima stanza. La madre della giovine ammalata, cortesissima ed assai garbata persona, non soffriva che io restassi solo; veniva a tenermi compagnia, e mi parlava sempre della sua figlia. Questa, mercè l’abilità e le premure di mio padre era fuori d’impiccio; stava bene, e la visita di quel giorno doveva essere l’ultima. Feci adunque ad essa il mio complimento, la ringraziai della bontà avuta per me, e terminai con dire: Se non ho più l’onore di vedervi... — Come? mi disse ella, non ci rivedremo più? — Se non ci viene mio padre. — Potrete per altro venir voi. — A che fare? — A che fare? Ascoltate. Mia figlia sta bene, non ha più bisogno del signor dottore, ma non mi dispiacerebbe che di tempo in tempo avesse una visita per amicizia, per vedere... se le cose vanno bene... se ella avesse bisogno... di purgarsi...; se non avete occupazioni più importanti, veniteci qualche volta, ve ne prego. — Ma la signorina mi gradirà ella? — Ah mio caro amico! non parliamo di questo: mia figlia vi ha veduto, nè altro bramerebbe che stringere relazione con voi. — Signora, questo è per me molto onore. Ma se mio padre venisse a saper ciò? — Non lo saprà: e poi, mia figlia è sotto la sua cura; non può disapprovare che il figlio venga a vederla. — Ma perchè non mi ha lasciato entrare in camera? — Perchè... la camera è piccola, c’è afa. — Sento rumore; esce mio padre. — Andiamo, an-