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242 | parte seconda |
m’imbarcai con mia moglie, e non volendo io fare un tal viaggio solo, non potevo avere una compagnia più gradita di questa. Andammo direttamente a Bologna, e appunto qui, incerto se doveva prendere la strada di Firenze oppure quella di Loreto, preferii quest’ultima per appagare la curiosità e la devozione a un tempo stesso.
Non può vedersi nulla di più ricco del santuario della Madonna di Loreto. Tutti i viaggiatori ne parlano con ammirazione, e tutti conoscono quel tempio magnifico e quella cappella miracolosa. Altro non facevo, visitando tali maraviglie, che verificare sul posto ciò che avevo ammirato da lungi. Vidi tutto, tutto esaminai, financo le cantine. Non è possibile trovarne delle più vaste e delle meglio fabbricate. Queste sono serbatoi vastissimi di eccellenti vini per uso di un’infinità di preti, di coadiutori, di penitenzieri, di viaggiatori, di pellegrini, di domestici e di oziosi; e questo prova l’immensità dei capitali che la pietà cristiana ha consacrato alla devozione dei forestieri egualmente che al comodo degli abitanti.
La piccola città di Loreto sembra una continua fiera di corone, medaglie ed immagini; e chi attraversa questa regione pare che sia in dovere di comprare qualche quantità di tal religiosa mercanzia per regalarne i forestieri. Facendo io pure la mia provvista come gli altri, mi divertivo ad interrogare il mio mercante sull’utile del suo commercio. — Ah! signore (egli mi disse) fuvvi un tempo nel quale, coll’aiuto di Maria Vergine benedetta, la gente della nostra condizione faceva rapidamente fortuna; ma da qualche anno a questa parte la Madre d’iddio irritata dai nostri peccati ci ha abbandonati. Lo smercio delle nostre mercanzie va di giorno in giorno diminuendo; noi, presentemente, abbiamo appena da vivere, e se non fossero i Veneziani, saremmo obbligati a chiuder bottega. — Legati e bene assestati i miei involti, il mercante mi fa il conto con rigorosa esattezza. Pago senza stiracchiare il prezzo; ed il buon uomo si fa un segno di croce col danaro da me datogli, talchè io me ne vado edificatissimo. Feci vedere all’abate Toni di Loreto, al quale ero stato raccomandato, gli oggetti che avevo comprati; e da lui intesi che il mercante mi aveva riconosciuto per Veneziano, e perciò mi aveva fatto pagare la mercanzia un terzo più del prezzo ordinario. Era tardi, ed ero anche sollecitato a partire; non ebbi tempo di andare a provare al mio devoto ch’egli era un birbante.
Ripresi pertanto la strada per Roma, e giunto felicemente in quella capitale, diedi subito avviso al signor conte*** del mio arrivo. Il giorno dopo mi manda il suo cameriere, e mi invita a pranzo da lui. Vi era già alla mia porta la carrozza per condurmivi, onde mi vesto, vado, e vi trovo adunati tutti i comici. Dopo i soliti complimenti, dirigo il discorso a quello ch’era più vicino a me, domandandogli in bella maniera, qual fosse il suo impiego. — Signore (egli mi disse con aria d’importanza), fo da Pulcinella. — Come! (gli risposi) il Pulcinella! in dialetto napoletano? — Sì, signore (egli soggiunse), nell’istessa maniera appunto che i vostri arlecchini parlano il bergamasco o il veneziano. Sono da dieci anni (nè lo dico per vantarmi) che fo il divertimento di Roma. Il signor Francisco, che qui vedete, recita da popa (cioè servetta), ed il signor Petrillo, ch’è là, sostiene le parti di madre e di cicalona; e tutti insieme abbiamo per dieci anni continui sostenuto il teatro Tordinona. — A questo discorso mi caddero le braccia, e diedi un’occhiata al signor conte, ch’era in quel momento assai