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capitolo xviii | 195 |
bella e amabile di Ircana, conviene aspettare, convien vederla. Il giovane persiano, quantunque amante della schiava, non disapprova il sentimento dell’amico. Potrebbe infatti Fatima andargli a genio più d’Ircana, ed egli pure lo brama per non turbar la pace del genitore. Ma che! rivede Ircana: questa seduttrice ed imperiosa donna adopra ogni sua arte per tenerlo avvinto nei soliti lacci; prega, piange, chiede la sua libertà, vuol partire, vuol morire, e non vuol che il suo sangue scorra sul letto nuziale del suo padrone. Vinto Thamas, a lei si arrende, tutto le promette, ed eccolo contento.
Nella maggior desolazione si presenta al padre, e gli partecipa tutto l’orrido del suo stato. Non gli è prestato orecchio; il contratto impegno è indissolubile, concluso è già il matrimonio; potente e formidabile è Osmano; è per giunger Fatima, bisogna accoglierla. Questa sposa comparisce nel second’atto con un numeroso séguito, preceduta da un’armonia di strumenti orientali e ricoperta da un velo, che la nasconde fino a che non si abbocca con lo sposo. Ritiratosi ognuno, Thamas la prega di scoprirsi; essa è bella, ma non è Ircana. Accortasi Fatima della freddezza del suo sposo, teme quel che vi è fra le femmine persiane di più vergognoso, cioè il divorzio, onde procura di guadagnarsi l’amichevole affetto del giovine, che già crede preoccupato. Thamas resta incantato al carattere di lei, e sinceramente le confida la sua passione. Allorchè si accese per la schiava non aveva di lei alcuna conoscenza. Fatima pertanto gli domanda almeno la sua stima: Thamas non può negarle il suo rispetto, la sua ammirazione. Rimasta sola si lagna anch’essa delle barbare leggi del paese, che sacrificano i figli agli interessi delle famiglie, ciò che segue a un dipresso anche in Europa; ma confessa che Thamas è amabile, e spera di possedere col tempo l’amore di lui. Nel serraglio di questo giovine vi è una vecchia donna chiamata Curcuma destinata al servizio delle schiave. Questa è un’europea intrigante, di cattiva natura, che non ha verun riguardo anche per le donne del suo paese, e che sparge nella commedia molte facezie e molto brio. Imbattesi in Fatima, e le parla come è solita di parlare alle schiave. Fatima le risponde con dignità, e la lascia bruscamente. La vecchia audace si chiama offesa; onde, vedendo Ircana, non manca d’irritarla contro la rivale, e d’inspirarle sempre più vendetta e gelosia. Viene in questo mentre Thamas per assicurare Ircana che essa avrà sempre la preferenza nel cuore di lui. A questa dichiarazione, la Circassa, più che mai furiosa, non gli presta fede, termina con dire che più non havvi strada di mezzo: debbono Fatima o Ircana andar lungi o morire. La prima, curiosa di conoscer l’altra, entra al terzo atto nel serraglio. Le schiave più docili e un poco ragionevoli hanno un estremo piacere di ricevere la sposa del suo padrone, e procurano anzi di onorarla con lusinghieri ed ampollosi elogi secondo lo stile asiatico: Ircana, che mai e poi mai si sarebbe messa nel numero dell’altre, spinta non ostante dalla curiosità, viene a vedere la sua nemica.
Qui segue fra le due rivali un dialogo quanto dolce e decente dalla parte di Fatima, altrettanto fiero ed insolente per parte d’Ircana: l’una mantiene sempre quel tono modesto col quale si respingono gli insulti senza manifestarne il dispiacere; l’altra è irritatissima; più che la morte, ella dice partendo, io detesto una donna che dovendo necessariamente avere il veleno in cuore, affetta pur nonostante col labbro la più dolce tranquillità. Thamas nuovamente