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capitolo viii | 165 |
quel che Lelio aveva spacciato fin allora. Ecco il bugiardo in imbroglio, rivolge però con tanta destrezza tutte le espressioni a suo favore, che arriva finalmente a farsi credere l’autore. Non riporterò il sonetto di Florindo, nè le sottigliezze di Lelio, perchè si può legger tutto questo nell’originale già stampato. Terminerò bensì il mio estratto con assicurare il lettore che questa scena ebbe molto incontro, e la rappresentazione tutto il successo desiderabile. L’argomento del Bugiardo, di carattere assai più comico che vizioso, me ne suggerì un altro molto più malvagio e pericoloso: parlo dell’Adulatore. In Francia quello del Rousseau non incontrò punto, ed il mio in Italia fu benissimo accolto, ed eccovene la ragione. Il poeta francese avea trattato quest’argomento più da filosofo che da autor comico, laddove io, inspirando orrore per un vizioso, aveva cercato i modi di ravvivare la commedia con episodi comici ed arguti concetti. Don Sigismondo, ch’è l’adulatore, occupa la carica di primo segretario di don Sancio governatore di Gaeta nel regno di Napoli. Questo don Sancio è un uomo spensierato; donna Luisa sua moglie, ambiziosa, e Isabella loro figlia una stordita, senza ingegno ed educazione. Il segretario le conosce a fondo, le adula, le inganna, e trae partito dalle loro debolezze ad oggetto di assicurare maggiormente la propria sorte.
L’adulazione di questo cattivo soggetto non si limita alla sola casa di cui si è già reso padrone; procura anche per la città di avere dalla sua i mariti per poi corrompere le mogli, profittando dell’imbecillità del suo principale per allontanar le persone che non gli vanno a genio. Non è già adulatore per l’unico piacere di esser tale, come è appunto il cattivo del Gresset, poichè nella sua commedia l’adulazione altro non è che il mezzo di giungere a soddisfare i suoi vizi. È orgoglioso, libertino, e avido di danaro nel tempo stesso; e quest’ultima passione lo conduce alla sua rovina. Ha la bassezza di far diminuire le provvisioni della gente di servizio del governatore per aumentare il proprio guadagno. I domestici s’indirizzano a lui per riparare a questo loro danno. Son benissimo accolti, sono blanditi, accarezzati; ma nulla concludono. Questi disgraziati adunque fanno tra loro lega, e conoscendo bene l’autore della lor perdita, gridano vendetta. Si discorre subito di fucilate, di coltellate. Il cuoco prende l’impegno di avvelenarlo ed eseguisce l’idea. Ecco don Sigismondo vittima della propria malvagità; muore però pentito, confessa i suoi falli, e don Sancio riconosce i propri: la sola governatrice piange la perdita dell’Adulatore. Mi dispiaceva di esser stato obbligato ad usare il veleno per lo scioglimenlo di questa commedia, ma dall’altro canto non potevo far diversamente. Lo scellerato meritava castigo; essendo egli protetto dal governatore e non bastantemente noto alla Corte di Napoli, immaginai un genere di morte che avevasi ben meritato. D’altra parte la mia riforma non era ancora giunta a quel punto a cui finalmente la condussi di lì a poco. Osavo adunque di tempo in tempo qualche licenza del gusto della nazione, sempre però contento, quando trovavo uno scioglimento naturale e da far colpo.
Ma eccovi ora una commedia di genere affatto diverso dalla precedente: ella è desunta dalla classe dei ridicoli, alternativa opportuna nella produzione successiva di molte opere. Questa è La famiglia dell’Antiquario, e la sesta delle sedici ideate. L’intitolai più semplicemente da principio L’Antiquario essendone egli infatti il protagonista; ma temendo che i litigi fra sua moglie e sua nuora non dividessero la pubblica attenzione, diedi alla commedia un ti-