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capitolo li | 139 |
negli affari del mio studio. Avevo cause in tutti i tribunali della città, clienti in ogni ceto; nobili di prima classe, cittadini de’ più ricchi, negozianti del maggior credito, curati, frati, fittuari facoltosi, e perfino uno de’ miei confratelli, che, trovandosi implicato in una causa criminale, mi scelse per suo difensore. Ecco dunque tutta la città dalla mia, tutti almeno avrebbero così creduto, ed era io pure di tale opinione; non indugiai però molto ad accorgermi dell’inganno: l’amicizia e la considerazione mi avevano, è vero, naturalizzato nei cuori dei particolari, ma in sostanza ero sempre forestiero, allorquando questi istessi individui si adunavano in corpo. Passò in questo tempo all’altra vita un vecchio avvocato pisano, il quale, secondo l’uso del paese, era il difensore fisso di parecchie comunità religiose, di alcune società d’arti e mestieri e di diverse altre case della città; carica che gli procurava in vino, grano, olio ed in danaro, uno stato convenientissimo, sgravandolo anche dalla spesa della casa. Alla di lui morte feci la domanda di tutti questi posti vacanti, per averne se non altro qualcuno; furono ottenuti tutti dai Pisani, e restò escluso il solo Veneziano.
Mi si diceva poi, per consolarmi, che non erano che soli due anni e mezzo che io mi trovavo a Pisa, e che all’opposto fino da quattr’anni almeno i miei antagonisti facevano passi per succedere al vecchio avvocato allora morto; ch’erano già stati presi impegni e corse parole, ma che per altro alla prima occasione io sarei stato assolutamente contento.
Tutto ciò poteva esser vero; ma di venti impieghi neppure uno per me! Tale avvenimento mi risvegliò un po’ di malumore, e talmente m’indispose, che non riguardavo più il mio impiego se non come uno stato precario e casuale. Un giorno, in cui me ne stavo concentrato in simili pensieri, mi si annunzia un forestiero che voleva parlarmi. Vedo un uomo dell’altezza di quasi sei piedi, grasso e grosso proporzionatamente, che traversa la sala con canna d’india alla mano e cappello tondo all’inglese. Entra nel mio studio a passi contati, ed io mi alzo: costui fa un gesto propriamente pittoresco, per dirmi che non m’incomodassi; si avanza, e lo fo sedere: ecco il nostro colloquio. — Signore, ei mi disse, io non ho l’onore di esser conosciuto da voi; voi però dovete conoscere in Venezia mio padre e mio zio; in una parola sono il vostro servo umilissimo Darbes. — Come! il signor Darbes? Il figlio del direttore della posta del Friuli, quel figlio che si credeva perduto, di cui s’erano fatte tante ricerche, e che si era così amaramente pianto? — Sì, signore: quel figliuol prodigo appunto, che non si è ancora prostrato alle ginocchia di suo padre. — Perchè adunque differite voi a dargli questa consolazione? — La mia famiglia, i miei parenti, la mia patria non mi rivedranno, che gloriosamente cinto di alloro. — Qual è dunque il vostro stato, o signore? — A questa domanda si alza il Darbes dalla sedia, batte la mano sulla sua pancia, e in tono di voce misto di fierezza e buffoneria: signore, egli disse, fo il comico. — Tutte le doti, ripresi allora io, sono stimabili, purchè chi le possiede sappia farle valere. — Io sono, egli soggiunse, il Pantalone della compagnia, che attualmente trovasi in Livorno; nè posso chiamarmi l’infimo tra i miei camerati, e il pubblico non isdegna di concorrere in folla alle rappresentazioni alle quali io prendo parte. Il Medebac, nostro direttore, ha fatto cento leghe per dissotterrarmi; non fo disonore ai parenti, al paese, alla professione, e senza vantarmi, o signore (dandosi in questo mentre un altro colpo sulla pancia), se è morto il Garelli, è subentrato il Darbes.