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FESTA

l’Iliade è quasi esclusivamente guerresco. E tale è Taras Bul’ ba; tanto che al critico moderno vien fatto di considerare come concessione alla tendenza «romantica» l’intrigo della bella polacca. Non si può negare infatti, che quell’episodio non appaia strettamente necessario (nemmeno, del resto, nell’Iliade la Teichoscopia e la Doloneia, né in Virgilio tutta la passione tragica di Didone!) e le sue suture si rivelano qua e là piuttosto ingenue. Ma benedetti questi difetti e queste incoerenze artistiche, se dobbiamo ad essi delle scene come la fuga notturna di Andrea, l’orazione dei Polacchi morenti di fame nella città assediata, e altro ancora! Comunque si possono applicare a Taras Bul’ba le parole che io scrissi un anno fa a proposito della terza battaglia dell’Iliade (Atti dell’Accademia degli Arcadi, 1929): «Il poeta fa sentire anche l’effetto inebriante e stupefacente che la vista del sangue e la morte sempre vicina produce; e ci presenta le tremende alterazioni della psiche del combattente per la fatica e lo sforzo e la continua tensione mentale: questi guerrieri sono ora bambini, ora mostri; ora sublimi come dèi, ora bruti; in una continua alternativa di gesta cavalleresche e di atti spietati».

Non è qui il luogo per un esame estetico esauriente. Basti accennare che la particolare efficacia narrativa e descrittiva del Gogol si ritrova in questo romanzetto storico, salvo qua e là qualche segno di stanchezza, come di uno che a mezzo il racconto segua un’altra preoccupazione. Anche questo è un indizio che ci troviamo abbastanza lontani dal Gogol delle Veglie e di Mirgorod.

Il lettore sarà buon giudice se confronterà i due lavori che qui si presentano tradotti insieme. L’idillio di Filemone e Bauci si può leggere in Ovidio (Met. VIII, 616-724). Trasportati in un angolo della Piccola Russia, e fatti ricchi senza bisogno di ospitare Giove e Mercurio, i due vecchi sposi prendono il nome di


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