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NOVELLE | 133 |
Nello stesso villaggio viveva, presso un cosacco di nome Korze, un servo che la gente chiamava Pietro senza famiglia, forse perchè lui non si ricordava più del babbo e della mamma. Vero: il fabbriciere diceva bensì ch’essi eran proprio morti di peste l’anno dopo la nascita di Pietro; ma la mia bisavola non ci credeva punto, anzi si arrovellava a trovargli parenti da ogni parte, se ben lui se ne curasse tanto quanto noi ci curiam della neve al tempo de’ tempi.
Lei diceva che il babbo di Pietro, ora nel paese dei zaporoghi, era stato un giorno prigioniero dei turchi, dove aveva sofferto spaventevoli torture ed era giunto a scampare quasi miracolosamente solo travestendosi da eunuco. Ma che contava la parentela di Piero? Le ragazze vi badavan poco; dicevan solo che, a vestirlo d’un caffettano nuovo, d’una cintura rossa attorno alle reni, a mettergli in capo un berretto d’astracan terminante in cima con un leggiadro cocuzzolo di velluto azzurro, una scimitarra a fianco, una bella pipa rabescata in mano, lui la vincerebbe su tutti i giovinotti della contrada; ma per suo malanno il povero Piero non aveva, al tirar delle somme, che un lercio gabbanello grigio, forato da tanti pertugi quanti non ha scudi un ebreo. Alla fine delle fini, codesta non sarebbe poi stata la sventura estrema. Eccola, invece, la miseria vera: mastro Korze aveva una figliuola, una bellezza tale da non averne vista mai simile nè ora nè allora, com’io penso. Diceva mia nonna (e voi sapete, con rispetto parlando, che una donna abbraccerebbe piuttosto il diavolo che dir bella ad un’altra donna), mia nonna diceva che le guancie di quella giovinetta cosacca eran più rosse della corolla del papavero più acceso, più fresche d’una tenera rosa, quando roride per la rugiada mattutina, civettine, fiammeggiano, stendono i petali e si pavoneggiano ai raggi del sole levante; ella paragonava le sue sopracciglia nere, ombranti gli occhi limpidi come se vi si volessero mirare, ai cordoncini che le ragazze comprano dai moscoviti ambulanti per appendervi al collo croci e medaglie; la bocca di lei, che i giovinotti non potevan guardare senza lambirsi le labbra, sembrava come creata a modulare solo canti di rosignolo. La sua capigliatura, nera come la piuma del corvo, e morbida come lino (allora le fanciulle non l’annodavano in trecce; la lasciavan pender giù, legandovi solo qualche bel nastro scarlatto), la sua capigliatura le cadeva in riccioli e