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Foma Grigorevic aveva una bizzarria tutta sua: non gli andava a verso il raccontar sempre la stessa storia. Se talvolta, a furia d’annoiarlo, lo s’induceva a ripetere una fiaba che ci aveva fatta sentire già, potete pur giurare ch’egli ve la rinnovellava di pianta, o vi aggiungeva varianti, o la trasfigurava in guisa che i due racconti non avevano più fra loro alcuna simiglianza.
Un giorno, uno di quei messeri (di quelli che noi, gente semplice, ci è difficile definire; sono, a dirla, scrittori o scribacchini? certo, son pari a quei cantambanchi da fiera che van mendicando, raspolando, rubacchiando di qua e di là qualcosa per scodellarvela poi in fogliettini una volta al mese o alla settimana) uno di quei messeri, dico, imparò questa storia da Foma Grigorevic, il quale con l’andar del tempo l’ha persino dimenticata.
Or eccoti giungere appunto da Poltava quel signorino incappottato color pisellino, del quale vi parlai altra volta! forse avrete letto anche il suo racconto: lui porta seco un libercolo e ce lo mostra aprendolo nel mezzo. Foma Grigorevic sta per inforcar gli occhiali sul naso; poi, ricordandosi di non averli rabberciati con filo e cera, passa il libro a me. Io che so leggere alla meglio e non ho bisogno di occhiali, mi metto a far da lettore ad alta voce. Avevo appena voltato due pagine, quando a un tratto Foma mi ferma col braccio.
— Un momento! Dimmi, anzi tutto: che cosa leggi?
Confesso che rimasi lì per lì stupito dalla dimanda.
— Come, cosa leggo, Foma Grigorevic? Ma leggo appunto la vostra storia, leggo le stesse vostre parole.
— Chi vi ha detto che sono le mie stesse parole?
— Non c’è dubbio; è bell’e stampato: «raccontata da un certo sagrestano...».
— Eh via! Sputategli in faccia, a colui che ha stampato codesto! Lui mènte, codesto figlio di cane, codesto mo-