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476 una coda non necessaria,

nuovi doveri — nel momento forse più favorevole ad esso, nel suo lavoro espiatorio — il suicidio interrompe audacemente, improvvidamente, il corso della suprema Giustizia, quando per avventura non richiedeasi dal suicida che un atto di fortezza o d’annegazione, a propiziare il passato — ed avviarsi, migliore, incontro all’avvenire.

Al cospetto di dottrine religiose, che proclamano Dio e l’immortalità dell’anima, che ammettono uno stato definitivo di perfezione — e per conseguenza, premii e castighi, e la necessità d’una prova purificatrice — il suicida è l’uomo, che lacera la sua sentenza, e fugge dal carcere, per non aver la virtù di riconoscere le proprie colpe, e però la giustizia dell’inflitta espiazione; o per non avere il coraggio di resistere alla condanna proferita dal giudice. Fuggire, non è provare d’aver ragione; sottrarsi alla pena, non è provare di non averla meritata.