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siccome già mi era avvenuto nell’andare da Napoli a Palermo, cosicchè posso ritenere con fondamento, che qualora avessi a fare un lungo viaggio di mare, finirei per abituarmi a quello, e per cessare dal soffrire.

Salito sul ponte, vidi con piacere che l’isola di Capri si trovava oramai ad una certa distanza sulla nostra sinistra, e che la nostra nave faceva strada in direzione del golfo, lasciandoci luogo a sperare di potervi entrare fra poco, come realmente avvenne; e dopo avere passata una cattiva notte, ebbimo la soddisfazione di potere contemplare, alla luce del pieno giorno, quegli oggetti che già avevamo ammirati alla sera. Non tardammo ad allontanarci del tutto da quegli scogli, che poco era mancato ci riuscissero fatali. Ieri avevamo ammirata in distanza la sponda destra del golfo, ed ora scorgevamo di fronte la città, le castella, ed alla sinistra Posilippo, e la lingua di terra la quale si estende di fronte ad Ischia e Procida. Tutti erano sul ponte, e fra gli altri un sacerdote greco, entusiasta della sua contrada natale, il quale richiesto dai Napoletani che si trovavano a bordo, e che salutavano con trasporto la loro patria, se Napoli potesse reggere al paragone con Costantinopoli, rispose in tuono molto patetico: «Anche questa è una città!» Arrivammo di buon ora ancora nel porto, il quale brulicava di gente; era vista animatissima: i nostri bauli, il resto de’ nostri bagagli non erano quasi sbarcati sulla calata, che due facchini se ne impossessarono, e non appena ebbero udito che volevamo recarci ad alloggiare presso Moriconi, presero la corsa colle nostre robe sulle spalle, quasi fossero un bottino, in guisa che duravamo fatica a potere loro tenere dietro collo sguardo per le strade, e per le piazze affollatissime. Kniep aveva il suo portafogli sotto il braccio, cosicchè avressimo salvati quanto meno i disegni, qualora quei due facchini fossero stati meno onesti, di quanto siano in generale i poveri diavoli napoletani, e ci avessero portato via, quanto era sfuggito al pericolo del naufragio.