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tavano, presentavano ostacolo minore che il mare, il quale era agitatissimo, e che in molti punti si frangeva contro gli scogli, ricadendo sopra le nostre povere persone. Il colpo d’occhio era stupendo, e ci faceva tollerare abbastanza di buona voglia il disagio, che non era poco.
Non ci mancò neppure occasione di fare osservazioni geologiche. Quelle pareti altissime di roccie calcari, già in demolizione, percosse dalle onde rovinavano tratto tratto, resistendo soltanto le parti più solide; e tutta la strada si vedeva seminata di pietre cornee, di pietre focaie, delle tinte le più svariate e delle quali abbiamo fatta una bella raccolta.
Messina, giovedì 10 maggio 1787.
In questo modo siamo arrivati a Messina, rassegnandoci, per non potere fare altrimenti, a passare la prima notte nella cattiva locanda del nostro mulattiere, colla lusinga di potere trovare al mattino stanza più confortevole. Questa risoluzione ci porse congiuntura di prendere fin dal primo momento idea dell’aspetto terribile di una città distrutta, imperocchè ci toccò camminare per un buon quarto d’ora fra le rovine e le macerie, prima di arrivare alla locanda, unico edificio di questo quartiere rimasto in piedi; e difatti, dalle finestre del piano superiore, non si scorge altro che un campo cosparso di rovine. Fuori di questa casa non si scorgeva traccia nè indizio di uomini, di animali; era notte fitta, e regnava un silenzio spaventevole.
Non era possibile, nè chiudere, nè tanto meno asserragliare le porte; la locanda per viaggiatori appartenenti alla razza umana, offeriva tutti i comodi che può porgere una stalla, destinata unicamente ai cavalli ed ai muli; ad onta di ciò dormimmo saporitamente sopra un materasso, che il nostro mulattiere industrioso, era andato strappare di sotto al padrone della locanda, il quale era di già a letto.