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si stende la città, e ad onta siano moderne le costruzioni che attualmente si scorgono, la vista anticamente doveva essere la stessa. Si scorge di là tutta la catena dei monti fino all’Etna, tutta la spiaggia del mare fino a Catania, anzi Siracusa; e chiude il quadro la mole imponente del volcano, colla sua colonna di fumo, quadro che non ha punto aspetto severo, imperocchè la trasparenza somma dell’atmosfera fa comparire gli oggetti più lontani, e ne raddolcisce i contorni.

Volgendo le spalle a questa vista, e guardando verso le gallerie praticate a tergo degli spettatori, sorgono a sinistra le pareti verticali delle rupi, e fra queste ed il mare corre la strada la quale porta a Messina. Si scorgono gruppi di scogli sulla sponda del mare, scogli nel mare stesso, e guardando attentamente si possono discernere in lontananza, fra le nuvole, le coste delle Calabrie.

Scendemmo nell’interno del teatro; ci fermammo a contemplare le rovine di questo, le quali dovrebbero pure allettare un architetto capace a progettarne, se non altro sulla carta, il ristauro; quindi cercammo ad avviarsi alla città, passando a traverso ai giardini; se non chè dovettimo persuaderci quivi per esperienza personale, essere baluardo inespugnabile, una siepe fitta di agave; si scorge spazio, tra le foglie, e si crede potere passare, ma le punte acutissime di quelle frappongono ostacolo; si sale sopra una di quelle foglie colossali, nella speranza possa questa reggere il peso della vostra persona, ma essa si rompe, ed invece di trovarvi libero, cadete addosso una pianta vicina. Finalmente riuscimmo ad uscire di quel liberinto; trovammo poco a vedere nella città, e verso il tramonto girammo alquanto nei dintorni, dove era bellistimo spettacolo quello delle ombre della notte, le quali scendevano poco a poco sovra questa contrada, stupenda in ogni punto.