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In quel punto entrò il figliuolo che non avevo visto il giorno prima. Rassomigliava alla sorella per statura, e di fisonomia. Portava seco la lettera che mi si voleva consegnare, e che secondo l’uso di queste contrade, aveva fatta scrivere da uno di quegli scrivani pubblici, i quali tengono il loro banco all’aperto. Il giovane, il quale aveva aspetto tranquillo, malinconico, e modesto, domandò notizie di suo zio, delle sue ricchezze, del suo treno di vita fastoso, e soggiunse mestamente, perchè avesse dimenticata per tal modo la sua famiglia? Sarebbe la nostra più grande felicità, continuò, s’egli volesse pure una volta tornare qui, e ricordarsi di noi; ma voi poi, come avete fatto a sapere da lui che tenga parenti a Palermo? Si dice ch’egli nasconda dovunque la sua origine, e che si vadi spacciando di nascita distinta? Risposi a queste domande, alle quali mi trovavo esposto per la leggerezza imprevidente del mio compagno nella mia prima visita, in modo da far parere probabile, che il zio, tuttocchè avesse motivi per tenere nascosto al pubblico la sua origine, non volesse però fare un segreto di questa a’ suoi amici, ed a’ suoi conoscenti.
La sorella, la quale era entrata durante il nostro discorso, e che per la presenza del fratello, come parimenti per l’assenza del mio compagno di ieri, si sentiva più libera, prese dessa pure piacevolmente parte alla conversazione. Mi pregarono vivamente entrambi di ricordarli al loro zio, quando io gli avessi scritto, come parimenti mi pregarono di fare ritorno a Palermo dopo il mio giro nel regno, e di non mancare di trovarmi qui per le feste di S. Rosalia.
La madre unì le sue istanze a quelle dei giovani. «Mio signore, disse, tuttochè non convenga guari a me che tengo una ragazza da marito il ricevere forastieri in casa, e tuttochè sia d’uopo guardarsi dal somministrare pretesto di ciarle alle male lingue, sarete pur sempre il ben venuto in casa nostra, tutte le volte che farete ritorno a Palermo.»