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capitarono alla nostra locanda due staffieri del vicerè, nello scopo di augurare le buone feste a tutti i forastieri, e di ottenere una mancia, aggiungendovi nel mio particolare un invito a pranzo per oggi stesso, motivo per il quale la mancia dovette essere più generosa.
Dopo avere impiegato tutte le ore del mattino nel visitare le chiese, e nell’osservare le fisonomie ed i costumi della popolazione, mi portai al palazzo del vicerè, il quale sorge alla parte estrema della città, verso i monti. Essendo alquanto di buon ora, le ampie sale erano tuttora deserte, e non vi trovai che un omicino di aspetto allegro, e vivace, che non tardai ad accorgermi essere Maltese.
Allorquando egli seppe che io ero Tedesco, mi domandò se sarei stato in grado di dargli qualche notizia di Erfurth, dove disse essersi trattenuto alcun tempo molto piacevolmente. Potei rispondere alle domande che mi porse, intorno alla famiglia Dacherode, al coadiutore di Dalberg, del che si dimostrò tutto lieto, richiedendomi ancora altre notizie ed informazioni della Turingia. Ne domandò parimenti con viva premura di Weimar. «Che cosa vi fa, mi disse, un tale, che a’ miei tempi era giovane, pieno di brio, e che faceva colà il bel tempo e la pioggia? Non posso ricordare più ora il suo nome, ma egli era l’autore del Werther?»
Dopo essere stato alcuni pochi istanti silenzioso, quasi in atto di cercare a sovvenirmi gli risposi: «Quello ero io.» Ed egli, ritirandosi due passi indietro, colpito da profonda sorpresa, sclamò «Dovete pur essere cambiato molto!» «Certamente, risposi, fra Weimar e Palermo, sono stato pur sottoposto a molte mutazioni.»
In quel momento entrò il vicerè con il suo seguito, facendomi il primo accoglienza con quei modi distinti che si convengono a persona rivestita di carica cotanto eminente. Non si potè però astenere dal sorridere del Maltese, il quale non levava gli occhi dalla mia persona, e non rinveniva dalla sua sorpresa. Sedetti a tavola a fianco